Se qualcuno, ingenuamente, pensava ancora che le Olimpiadi fossero solo un’occasione per vedere all’opera gli atleti migliori del mondo e celebrare lo sport, l’esclusione della Russia dai Giochi invernali di Pyeongchang, legata a un presunto caso di doping di stato, ha riportato tutti coi piedi per terra. Del resto, da ormai almeno 5 decenni, i Giochi olimpici, al pari delle manifestazioni degli sport più popolari al mondo, sono stati sempre più inquinati da interessi economici e politici. Quando il barone Pierre de Coubertin riuscì finalmente a riaccendere, in chiave moderna, il Sacro Fuoco d’Olimpia nel 1896 ad Atene, probabilmente non immaginava che oggi, 51 edizioni dopo tra giochi invernali ed estivi e a poche settimane dalla 52esima, le Olimpiadi sarebbero diventate occasione non di unione ma di scontro tra i governi del mondo.
DIMOSTRAZIONI DI POTENZA. Organizzare i Giochi, siano essi invernali o estivi, è stato, a partire dagli anni ‘30, un’occasione per il paese ospitante di dimostrare la propria forza agli occhi di alleati e nemici. La prima edizione delle Olimpiadi che ha avuto questi scopi, lontani dalla morale dei sani valori sportivi, fu quella di Berlino del 1936, i Giochi olimpici del grande Reich tedesco, che doveva essere millenario ma che, fortunatamente, è durato poco più di dieci anni. In quell’occasione Hitler e i gerarchi nazisti, parecchio attenti alla propaganda, inserirono delle novità che tutt’oggi sono utilizzate: la marcia della torcia olimpica e l’accensione del braciere. La macchina propagandistica hitleriana mise in scena una rappresentazione del mondo ideale previsto dall’ideologia nazista, e lo fece senza badare a spese, organizzando tutto nel minimo dettaglio e dando inoltre vita al primo film olimpico, “Il Trionfo della volontà” di Leni Riefenstahl, divenuto anch’esso precursore degli ormai consueti film dei Giochi che il CIO rilascia al termine di ogni edizione. Tuttavia, nelle Olimpiadi del trionfo della razza ariana, il personaggio che si accaparrò tutte le copertine fu l’afroamericano Jesse Owens, di certo non biondo e con gli occhi azzurri. Ma fu l’unica macchia per una manifestazione che colse decisamente gli obiettivi degli organizzatori. Dopo Berlino ‘36, i primi Giochi moderni veramente politicizzati della storia, vi fu l’interruzione dovuta al secondo conflitto mondiale. Ma alla ripresa delle Olimpiadi, il Comitato Olimpico aveva adesso a che fare con un mondo totalmente diverso da quello degli anni ’30, polarizzato tra due blocchi.
BOICOTTO IO O BOICOTTI TU? L’ordine mondiale, mutato dopo il ’45, aveva visto due dominatori spartirsi il mondo: gli USA e l’URSS, entrambi attorniati (e compiaciuti) dai rispettivi alleati. Si coniò il termine “Guerra Fredda” per definire questo periodo, proprio perché le due superpotenze non si affrontarono mai sul campo di battaglia. Tuttavia lo fecero sul campo politico e sportivo. Prendendo esempio da quel regime sanguinario che entrambi gli stati, all’epoca alleati, avevano sconfitto in guerra, USA e URSS organizzarono negli anni ’80, al culmine della tensione, un’edizione propagandistica a testa delle Olimpiadi estive: i sovietici quella del 1980 e gli americani quella del 1984. Nei Giochi di Mosca del 1980 però, gli Stati Uniti, in risposta all’invasione russa dell’Afghanistan avvenuta nel gennaio di quell’anno, decisero di boicottare l’edizione, non partecipando. In più, in vista delle elezioni, con questa mossa il presidente uscente Jimmy Carter cercava di riacquistare consensi. Seguendo l’esempio degli USA, grandissima parte dei paesi facenti parte del blocco occidentale decise di non prendere parte ai Giochi, mentre alcuni stati permisero ai propri atleti di gareggiare, ma sotto le insegne del CIO e non per la propria bandiera. In risposta, 4 anni dopo, i sovietici e i paesi gravitanti nell’orbita comunista non parteciparono alle Olimpiadi di Los Angeles. In questa storia tragicomica fatta di dispetti, a perdere furono soltanto gli atleti. I danni economici causati dall’una all’altra potenza furono infatti minimi, e le mosse politiche da campagna elettorale non sortirono gli effetti sperati, in quanto Carter perse quelle elezioni che videro trionfare Ronald Reagan. Tuttavia, alcuni degli atleti tra i più forti che il mondo abbia mai visto, videro svanire il sogno di vincere la manifestazione più importante per uno sportivo, e anche quelli che parteciparono, dovettero festeggiare i loro successi senza l’onore di rappresentare la propria nazione e poter ascoltare sul podio l’inno nazionale.
PROTESTE E ATTENTATI. Al di là della pantomima messa in scena da USA e URSS a Mosca prima e a Los Angeles poi, i Giochi olimpici avevano cominciato ad avere a che fare sempre meno con lo sport già negli anni ’60. Celebre fu l’edizione svoltasi, tra le polemiche, a Città del Messico nel 1968. Tommie Smith e John Carlos, velocisti afroamericani, fecero scalpore durante la premiazione dei 200 metri piani, gara vinta da Smith con Carlos terzo. I due, dopo aver ricevuto la medaglia, durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, tennero la testa basta e, indossando un guanto nero, alzarono il pugno chiuso: la protesta delle “Black Panther” contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti. Inoltre, pochi giorni prima della cerimonia inaugurale, una quantità mai specificata di manifestanti venne massacrata dalla polizia che sparò su una folla che protestava pacificamente contro i pesanti costi sostenuti dall’amministrazione messicana per poter organizzare le Olimpiadi. In quell’occasione il presidente del CIO, l’americano conservatore Avery Brundage, insistette affinché si andasse avanti come se non fosse successo nulla. Stesso comportamento tenuto 4 anni dopo, quando durante i Giochi di Monaco il commando palestinese “Settembre Nero” fece irruzione negli alloggi del villaggio olimpico destinati agli atleti israeliani, facendone strage: vittime politiche, non di sport.
DOPING E ALTI COSTI. Negli ultimi 25 anni i nemici numero uno dei Giochi olimpici moderni sono stati sicuramente due: il doping e gli alti costi. Per quanto riguarda il primo, oggi sappiamo che già durante la Guerra Fredda il doping di stato in paesi come Unione Sovietica e Germania Est era pratica in uso. Nel corso del tempo, poi, singoli atleti si sono macchiati di questo riprovevole reato. Fu il caso di Ben Johnson, canadese campione dei 100 metri ad Atlanta ’96, trovato positivo e subito spogliato del titolo, o di Marion Jones, sportiva iconica dell’atleta americana che confessò di aver fatto uso di sostanza dopanti, fino ad arrivare a Justin Gatlin, vincitore con record del mondo dei 100 metri ad Atene 2004 ma squalificato nel 2006 per aver assunto testosterone, oggi redento e campione del mondo in carica della specialità. Il caso odierno della Russia, squalificata per presunto doping di stato e contornato ancora da zone d’ombra, rientra nella categoria, ma l’esclusione sembra più politica che altro, forse in risposta alle aggressioni in Crimea, o a un Putin che diventa ogni giorno sempre più influente. Per quanto riguarda i costi invece, a partire dai Giochi di Atene, gli stati che hanno fronteggiato l’organizzazione dell’evento si sono poi trovati a fare i conti con strutture inutilizzate, come nel caso di Torino che ospitò le Olimpiadi invernali del 2006 e che oggi utilizza stabilmente solo lo Stadio Olimpico ristrutturato per l’occasione, e debiti stellari che hanno inciso non poco sulle casse statali, come nel caso della Grecia. Se si aggiungono a queste due cause anche la corruzione e le speculazioni di dubbia legalità sugli appalti, ci aspettiamo di vedere sempre più proteste prima dei Giochi, come a Rio de Janeiro nel 2016, e una sempre più alta disaffezione dei cittadini e degli appassionati, come avvenuto per la candidatura di Roma ad ospitare le Olimpiadi del 2020, ritirata dal comune anche visto lo stragrande scetticismo dei romani. Se lo sport continuerà ad essere un modo dei governi di farsi la guerra senza armi, il sogno del barone de Coubertin è destinato a scomparire quanto prima, in un periodo storico in cui, forse a causa del troppo progresso, si guarda al passato con sempre più (troppa) nostalgia ma con equilibri mutati.