Settecentotrenta giorni. Tanti sono quelli che bisogna mettere in fila per arrivare a due anni, e per tutto questo tempo quel telefono di Panmunjon non ha emesso uno squillo. Nessuno, neanche per errore. Quell’apparecchio telefonico non è come tutti gli altri, anche solo per il semplice fatto che si trova in una stanza di un ufficio sito nella zona demilitarizzata a cavallo del quarantottesimo parallelo: il confine tra Corea del Nord e Corea del Sud. Tra la preistoria e la modernità. Ma il 3 gennaio, finalmente, uno squillo. Le due Coree sono di nuovo in contatto. E le Olimpiadi tornano per un attimo al passato più genuino della loro storia.
DIALOGO A SORPRESA. Come nelle favole più belle, il colpo di scena è giunto nel momento meno atteso. Se la Corea del Nord, infatti, aveva canalizzato l’attenzione su di sé solo per la querelle, ormai ridottasi a pantomima, con gli USA e Donald Trump (resterà negli annali il botta e risposta sulle dimensioni dei bottoni nucleari), a Seul si respirava ansia e paura di fallimento in vista dei Giochi invernali di Pyeongchang che, tra la questione dell’esclusione russa e i pochi biglietti venduti rispetto alle attese, si avviavano a diventare un flop. Ma, in questa situazione di tensione, Kim Jong-un, il padre padrone del Nord, ha fatto una dichiarazione a sorpresa aprendo alla partecipazione olimpica degli atleti di Pyongyang. Il premier della Corea del Sud, Lee Nak Yeon, convinto unionista, ha subito accettato di dialogare con i fratelli del Nord, e adesso si è arrivati addirittura a parlare di una partecipazione congiunta delle due Coree all’evento. Eventualità, ad onor del vero, già verificatasi in passato. L’ultima volta proprio in occasione di un’Olimpiade invernale, quella di Torino del 2006, quando Nord e Sud gareggiarono sotto la stessa bandiera, con stilizzata in azzurro la penisola su uno sfondo bianco, ma alla luce del clima sempre più teso nell’estremo oriente e con ripercussioni su scala mondiale, questa volta ha un sapore diverso. Un gusto dolce dopo tanto amaro, come quando, dopo aver preso uno sciroppo disgustoso, si gusta una caramella.
UNA STORIA COMPLESSA. La guerra di Corea, iniziata nel 1950, non è mai terminata ufficialmente. Resiste soltanto un cessate il fuoco proclamato nel 1953. Ciò vuol dire che in qualsiasi momento le statistiche che parlano di quasi 3 milioni di morti nel conflitto, la metà (come sempre) civili, potrebbero essere aggiornate, e in un panorama globale che continua a riscaldarsi piuttosto che raffreddarsi, questa evenienza sembra, purtroppo, sempre meno remota. Tornando indietro nel tempo, le due Coree sono state separate nelle conferenze tenutesi sul finire del secondo conflitto mondiale, ultima e più famosa quella di Jalta, con le nazioni vincitrici che decisero di spartire la penisola in due zone d’influenza, come del resto si fece anche con Berlino: a Sud statunitensi e inglesi, al Nord i sovietici. Tuttavia, come accadde in Germania, una divisione che doveva essere temporanea divenne permanente. A Berlino oggi restano in piedi solo pochi pezzi di muro come monumento alla memoria di qualcosa che non dovrà mai più accadere. A Panmunjom, nella zona demilitarizzata, ci auspichiamo che le caserme e le fortificazioni possano diventare luoghi di ritrovo per un popolo diviso dalla follia umana.
ABBASSARE I TONI. Ma per giungere a quest’auspicio, serve che le parti in causa, soprattutto Pyongyang e Washington, che pur non essendo una città della penisola è presente in qualsiasi faccenda del mondo, abbassino finalmente i toni. La Corea, come il mondo tutto, non ha bisogno di ulteriore tensione, e quella dei Giochi di Pyeongchang è un’opportunità capitale che va sfruttata da tutti. Le Olimpiadi invernali che avranno inizio a febbraio, possono cambiare la loro storia e con essa quella della comunità mondiale, trasformandosi da probabile flop a opportunità di pace e dialogo. Del resto nell’antica Grecia, durante i Giochi olimpici, si fermava ogni guerra, e anche se in epoca moderna questa peculiarità non è mai stata rispettata e anzi, al contrario, come avevo avuto modo di scrivere in un precedente articolo, le Olimpiadi erano state utilizzate dai governi come prova di forza e arroganza, adesso il Sacro Fuoco d’Olimpia può tornare a scaldare i cuori e le coscienze dei potenti del mondo. Ovviamente chi scrive non si illude che questo evento possa rabbonire Kim Jong-un e che al termine della manifestazione potremo smettere di riferirci alle Coree parlando solo di un’unica Corea unita, facendo tornare il 48esimo parallelo una semplice unità di misura latitudinale, ma di sicuro lo sport ha la possibilità di riunire i popoli. Riunire. Bisogna riunire, non separare. Il mondo ha attraversato nella sua storia troppe divisioni che hanno portato solo morte. Lo sport, invece, è l’esaltazione della vita, e anche se oramai è impossibile concepirlo senza le logiche di business che accompagnano le discipline più famose, sperare oggi è possibile. Del resto, quando Kim Jong Il, padre di Kim Jong-un, morì nel 2011, la comunità mondiale credeva nel giovane rampollo, che era cresciuto e aveva studiato in un universo totalmente distante da quello creato da suo nonno, e sperava che finalmente le cose in Corea del Nord potessero cambiare. Purtroppo queste speranze sono state mal riposte, ma perché non dovremmo tornare a credere in un cambiamento? Nulla è immutabile, neanche la crudeltà e la cattiveria di un uomo, e solo sognando qualcosa di meglio si può ottenere qualcosa di meglio, non c’è altra strada. Perché un popolo che da troppo tempo vive diviso, e in condizione opposte, reclama di tornare ad abbracciarsi. Perché i muri non hanno futuro.