Un martedì, ordinario, come tanti, ma scelto per la visita del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel capoluogo etneo. Surreale la giornata che ha avuto inizio con la visita degli “orti urbani” di Librino, proseguita con la tappa alle Biblioteche Riunite “Civica e Ursino Recupero” presso l’ex monastero di San Nicolò l’Arena e conclusasi con l’inaugurazione della nuova stagione lirica del Teatro Massimo “Vincenzo Bellini”. E, come in occasione di tutti i grandi appuntamenti istituzionali, la città è tirata a lucido o, quantomeno, si è oculatamente badato a dare una spolverata, salvo celare la polvere sotto al tappeto. La stessa frizzante e vibrante eccitazione è palpabile anche in occasione del grande evento serale che vede protagonista l’illustre ospite. E così, come da previsioni, l’occasionale e mondanissima presenza dell’anacronistica jet society e presunta élite culturale catanese “s’è desta”, improvvisamente, all’irresistibile richiamo delle massime istituzioni per quanto la stessa si stagli nitidamente in contrapposizione a un’identità culturale ormai al tramonto e a un pubblico “storico” che, oltre a invecchiare, finisce per scemare.
L’ATTESA. Tutte le uscite della piazza antistante che dal teatro trae il nome, discutibile luogo di ritrovo delle nuove generazioni, sono presidiate da camionette delle forze dell’ordine, mentre all’ingresso – teoricamente “anticipato” di un’ora abbondante per ragioni di etichetta e di sicurezza – si avvicendano mise impegnative, naftaleniche e talvolta di dubbio gusto, tra qualche lungo o smoking, come un déjà-vu interrotto solamente da corazzieri oversize in alta uniforme e approssimativi controlli di sicurezza al metal detector, quest’ultimo ugualmente insensibile a monili di pregio e bigiotteria. L’attesa è lunga ed estenuante ma la patriottica caparbietà del pubblico etneo cede, in piedi, di fronte all’incondizionato fascino del canuto e algido Capo di Stato che – accompagnato dal ministro per i rapporti con il Parlamento, dal neo-governatore e dal primo cittadino – tra i calorosi e ripetuti applausi saluta con un sobrio cenno di mano. Dal palco reale, già occupato da Giovanni Gronchi e in qualche modo provvisto di addobbo floreale, la presenza del taciturno Mattarella risveglia sentimenti da Italia umbertina: il capo di tutti gli astanti, dalla platea ai vari ordini di palchi, è rivolto nella medesima direzione e in onore del composto inquilino del Quirinale viene eseguito il Canto degli italiani di Goffredo Mameli, intonato dal Coro tra l’emozione generale e le mani sui rispettivi cuori (l’altra spesso impegnata nel filmare il suggestivo momento con lo smartphone).
L’OPERA. E, finalmente, il sipario si può aprire su La Rondine di Giacomo Puccini, assente al Bellini dal ’91 e diretta dalla bacchetta di un fervido e appassionato estimatore del titolo quale Gianluigi Gelmetti, direttore principale ospite del cartellone, che per l’occasione ha curato anche la regia. La scelta di inaugurare con un titolo – inconsueto e relativamente poco visitato, quasi al pari di Edgar e Le Villi – del catalogo di piena maturità del compositore toscano si inquadra in quella Renaissance che ha caratterizzato la generale ripresa di una partitura ardita e innovativa sull’onda delle celebrazioni che ne hanno salutato il centenario della prima rappresentazione, avvenuta il 27 marzo del 1917 al Grand Théâtre di Monte-Carlo. Talvolta ignorata o impropriamente tacciata della nomea di operetta, la terz’ultima opera del Lucchese, in piena Grande Guerra, volò poco, basso e stentatamente, tra le continue revisioni e ripensamenti del suo stesso artefice (“una solenne porcheria”). “Leggera, a tinte tenui”, la raffinata commedia lirica in tre atti su libretto di Giuseppe Adami porta con sé le non trascurabili implicazioni morali di una fugace ricerca e fuga d’amore che è ineluttabilmente destinata a frangersi contro una frivola realtà sociale che non concede spazi a sentimenti improvvisi onesti ma sfumati. Una “Traviata all’acqua di rose” dagli esiti meno tragici – secondo alcuni – la cui ambientazione parigina evoca il labile accostamento a La bohème, salvo poi rifuggire e rifugiarsi nell’aura di un lontano passato, in un’ormai inaccessibile Belle Époque infranta dal conflitto bellico. Sugli esiti dell’operazione troppo facile sarebbe ricorrere a metaforici riferimenti al titolo ma, si sa, una rondine non fa primavera.
L’ALLESTIMENTO. E, nella primigenia edizione, va in scena al Bellini – con repliche fino al 24 gennaio – una Magda indipendente sì ma tutt’altro che “protofemminista”, come tende a definirla un certo filone interpretativo. Non sappiamo, in primo luogo, se l’elegante salone tra liberty e Art Noveau, nel quale predomina l’intenso blu cobalto dei tendaggi e del fondale, si possa collocare nella Parigi del Secondo Impero che dovrebbe far da sfondo alla vicenda. Non vi è traccia di una veduta aerea delle Tuileries o dei mille comignoli così come di verande e serre fiorite, ma a campeggiare è un salotto borghese tra lampade, stilizzati paraventi, pianoforte e un boudoir. Il disegno di luci è intimo e caldo, incentrato su fasci fissi, nella dimora della flemmatica mantenuta, dove questa e i suoi ospiti chiacchierano dell’amore “sentimentale” come prescrive la moda che imperversa nel “mondo elegante”. Una situazione apparentemente onirica che ben presto rivela l’insoddisfazione della donna di mondo, alla ricerca di un sentimento autentico che le parrà di trovare nel candido giovane di provincia Ruggero e per il quale lascerà l’interessato, generoso banchiere Rambaldo. Se la regia non brilla per emozioni visive, l’impianto scenico di Pasquale Grossi diversifica marcatamente i tre atti: il secondo più che il malizioso Bal Bullier, ossia la Closerie des Lilas, presenta analogie con un club stile America proibizionista con tanto di spazio articolato che ricorda un cocktail-bar: qui varia umanità fa impazzare un farraginoso, delirante, vacuo e spensierato carnevale di comparse, ove a fioraie, sartine, avventori e curiosi si alternano gladiatori romani, uniformI francesi, fogge spagnoleggianti, grisettes e persino a un’isterica Barbablù con tanto di borsetta. Tra ballerine con audaci e aderenti costumi sbrilluccicanti si danza, si beve, si ama. Certo, quelli che dovrebbero essere “studenti gaudenti” hanno i capelli bianchi dei coristi più âgés, probabilmente fuori corso da decenni. Sulla doppia scalinata la distribuzione delle masse rende poco agevole i movimenti scenici di coro e comparse. Insomma, non ci si aspettava lo storico allestimento firmato da Karl Lagerfeld ma Grossi fallisce dove era riuscita la delicata e fresca regia di Denis Krief al Maggio Musicale Fiorentino, capace di snellire orpelli visivi e decorativi che strizzano l’occhio a compiacimenti estetizzanti e a evocare i diversi ambienti in un’atmosfera da commedia sofisticata, dedicando, inoltre, cura e attenzione al realismo della recitazione. Il terzo atto improvvisamente eccede, invece, nel minimalismo e in una reinterpretazione quasi atemporale: non vi è traccia di padiglione o terrazza, con la vista del mare che si infrange sull’immagine oleografica delle spiagge della Costa Azzurra, a simboleggiare il provvisorio nido e rifugio d’amore della coppia che non potrà mai essere. C’erano solo un divano e un tavolino in vimini su un fosco sfondo azzurro; pose classiche e manierate accompagnano l’estasi degli amanti. Ma qualche incoerenza scenica non è nulla in confronto al vasto assortimento di costumi che di certo meritavano una riflessione più attenta: da eleganti fogge setate a tagli e colori più disparati, senza dimenticare autoreggenti con fiocco e smoking femminili con esorbitanti scollature. Inutile aggiungere che all’inquieta protagonista lo scenario tranquillizzante va presto stretto e l’idillio amoroso non dura a lungo: non appena sopraggiungono i problemi economici e l’amato le prospetta, con la benedizione materna e la “santa protezione”, il matrimonio con prole e la semplice vita di provincia. Magda comprende quanto le costi continuare a illudersi di poter volare troppo in alto, fino a un’esistenza improntata ai tradizionali valori borghesi, e, rinunciando all’amato («Trionfando sono passata tra la vergogna e l’oro!»), fa ritorno nel «popoloso deserto che appellano Parigi».
UNA SINGOLARE MODERNITÀ. Il finale accorato, leggero ma aperto sembra rivelare la modernità della protagonista, consapevole della propria difficoltà di amare incondizionatamente ed eternamente, pervasa com’è dalla libera determinazione di perseguire la realizzazione personale. Se da un lato La rondine sembra additare le ipocrisie perbeniste di una società stereotipata e caricaturizzata, la sua protagonista è votata alla disillusione definitiva, non si immola né si redime a madre di famiglia ma ritorna “a fare la vita”. Un’eroina, insomma, mondana ed enigmatica, tanto genuina quanto opportunista, ora sognatrice ora pragmatica; travolta dagli eventi ma capace di prendere per mano il proprio destino e la propria indipendenza da donna moderna che, tuttavia, non trova compiuto riscontro sotto il profilo di quella squisitamente economica. Dal rifiuto che segue alla lettera della madre si dipana un duetto che ci si aspetterebbe carico di colori e serrato nei tempi, invece l’agogica si slarga fino a lasciare i due amanti prossimi a separarsi con una linea di dolore sbigottito, puro. Il lirismo di un brindisi di fattura assai complessa (si pensi al brillante, tenero e trascinante quartetto “Bevo al tuo fresco sorriso”) illude vi possa essere un lieto fine. Ma l’orchestra raggiunge i toni e i colori sinfonici più appassionati quando accompagna l’animato e sofferto addio, salvo poi dissolversi a tal punto da essere percepita solo come un suono lontano. La sofferenza è sfumata e malinconica: il sentimento non è eterno e la rinuncia è meno dolorosa.
GLI INTERPRETI. La rondine del Bellini stenta però a spiccare il volo. Il canto di conversazione degli interpreti, ora insicuro nell’emissione ora fitto e quasi parlato, non sempre emerge nitido e il brio si sperde fagocitato dall’Orchestra. Il concertatore di rango scava gli aspetti intimistici dell’affascinante partitura, misura fin troppo le pagine sentimentali più dinamiche e i tempi risultano alquanto lenti. E se il dialogo tra palcoscenico e buca è perfettibile, soprattutto nel primo atto, Gelmetti raccorda, talvolta, con varietà di dinamica e agogica l’ininterrotto fluire di momenti leggeri e i passi corali con quelli più sentimentali del dramma borghese. Nonostante la massiccia presenza di ballabili (dall’onnipresente valzer, al fox-trot passando per il one-step) a non essere restituita a pieno è la frenesia, la joie di vivre e il disincanto di una partitura che mal sopporta il sovraccarico di enfasi. Il titolo pucciniano, come la sua protagonista, “s’abbatte sfibrato” con “tutta l’infinita tristezza d’una festa passata”. Discreta la prova della compagine del Coro, istruita da Gea Garatti Ansini, che – duole dirlo – sembra aver riscoperto qualche antico vezzo negativo. Il soprano Patrizia Ciofi, al debutto nel ruolo di Magda e in forma poco ottimale, ha poco convinto nel passaggio di registro, per emissione e proiezione dello strumento, così come negli accenti più drammatici e nostalgici. Non risulta nel complesso particolarmente fedele all’ambiguo personaggio. Smaliziata, piccante e vivace, la Lisette di Angela Nisi, dalla voce chiara e brillante nel registro acuto, è sicura nell’emissione e sensuale nel gusto interpretativo; credibilissima nei panni dell’esuberante e impenitente cameriera in cerca d’amore e fortuna. Il tenore Giuseppe Filianoti ripropone un romantico e asciutto Ruggero, intenso, dotato di voce calda e buona presenza scenica, perfetto per incarnare la foga giovanile, l’ingenuità e la dolcezza del personaggio; mostra padronanza nel registro medio e nelle note gravi, pur tuttavia rivelandosi meno convincente negli acuti. Qualche sforzo in più nel fraseggio gli avrebbe permesso di costruire un personaggio ancora più convincente. Andrea Giovannini è il poeta alla moda Prunier, viveur ma genuino, sottile caricatura di Gabriele D’Annunzio: la sua interpretazione è coerente e ben dosata, tra morbido fraseggio e variegati colori. Mediamente elegante il Rambaldo del baritono Marco Frusoni. Nelle parti di fianco Ivanna Speranza (Yvette), Katarzyna Medlarska (Bianca), Pilar Tejero (Suzy /un cantore), Jesus Piñeiro (Gobin), Giuseppe Toia (Périchaud), Salvo Di Salvo (Crébillon / Un maggiordomo).
UNA RONDINE NON FA PRIMAVERA. Gli applausi a scena aperta si contano sulle dita di una mano e, anche a sipario chiuso, il pubblico si dimostra tiepido e poco generoso di battimani. Nonostante l’equilibrio tra sentimentalismo e atmosfera spensierata con grandi affreschi di verità, l’allestimento sembra non aver entusiasmato. E mentre l’inesperto provinciale e la bella mantenuta brindano a un amore sbocciato velocemente, voracemente cercato, inseguito e afferrato, La rondine del Bellini stenta ad attestarsi in quell’eccellenza culturale e musicale che è stata misconosciuta all’ente lirico e che lo stesso auspica di riscattare. Non basta il bel mondo e la festosità sterile dell’“effetto Mattarella”. Nonostante l’esiguità di risorse, serve sfruttare meglio qualche occasione per spiccare il volo e sottrarsi alla disillusione e a nostalgici rimpianti. Ben più comodo sarebbe illudersi di poter “migrare verso un chiaro paese di sogno… verso il sole, verso l’amore”. Ma – come insegna il titolo in scena – non basta. La realtà non sempre è all’altezza dei sogni e delle aspettative.