“Doing a Bradbury”. Si dice così in Australia per indicare un’impresa insperata. Ad esempio, ponete il caso che vi presentiate ad un esame senza avere studiato nulla e, vuoi per bravura vuoi per fortuna, riusciate a rimanere in piedi resistendo ad ogni attacco del professore conquistando l’agognato 18. Ecco, vi faccio i miei complimenti, avete appena “fatto un Bradbury”. Ma chi è Steven Bradbury?
NOVELLO ROCKY. Vi ricordate Rocky Balboa? Il pugile creato da Sylvester Stallone non era necessariamente il più forte, né il più tecnico. Talvolta non era neanche il più atletico e, di volta in volta, si trovava ad affrontare un avversario favorito per il successo. Eppure lo “Stallone Italiano” vinceva sempre perché restava in piedi. Ganci, montanti o diretti, Rocky non andava mai a terra e alla fine la spuntava. Bene, Steven Bradbury adottando la stessa tattica ha vinto un oro alle Olimpiadi. Un campione olimpico australiano! Avrà sicuramente trionfato nel nuoto o nel ciclismo, forse nell’equitazione. E invece no, perché il nostro eroe è stato campione di Short-Track, disciplina di pattinaggio su ghiaccio. Certo è strano, se pensi all’Australia ti viene subito in mente il caldo e il Natale in estate, i koala e i canguri, al massimo Airport Security. Sicuramente non il pattinaggio su ghiaccio. Ed è anche questo a contribuire a rendere speciale la nostra storia, che parte da un numero importante e significativo per il nostro protagonista. Ognuno di noi ha un numero portafortuna, quello di Bradbury è il 111, come i punti di sutura che sono serviti ad arginare una ferita all’arteria femorale che, oltre a limitarne la carriera, stava per fargli perdere la vita. Un incidente con la lama del pattino di un collega che poteva costare davvero caro all’atleta di Camden, città a 65 km da Sidney, che in gioventù era stato promessa autentica della disciplina, contribuendo a far crescere gli sport invernali in patria: bronzo ai Giochi di Lillehammer ’94 nella 5000 metri staffetta e 3 medaglie mondiali, oro nel ’91, bronzo nel ’93 e argento nel ’94. Sicuramente non l’ultimo degli sprovveduti. Fino però a una gara di Coppa del Mondo a Montreal, proprio nell’anno di grazia 1994: il giorno dei 111.
UN CALVARIO DURATO ANNI. Dura, durissima recuperare da un infortunio del genere: ci vogliono 18 mesi di riabilitazione per tornare a pattinare, ma Steven non è più lo stesso. E siccome la legge di Murphy è sempre in agguato, se qualcosa può andar male, andrà male. È il 2000, Bradbury tenta faticosamente di tornare in forma dopo i fallimentari Giochi del ’98 a Nagano, dove l’australiano colleziona come miglior risultato un ottavo posto nella 5000 metri staffetta: troppo poco per uno che solo qualche anno prima era stato iridato. Per poter partecipare alle Olimpiadi di Salt Lake City che si terranno due anni dopo, Steven si allena duramente. Troppo. In un incidente durante una sessione di allenamento, si frattura il collo ed è costretto a stare per 6 settimane con un collare ortopedico. Se è vero che la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo. Nonostante ciò, complice anche un movimento, quello del pattinaggio su ghiaccio, che non gli pone di fronte avversari degni di sostituirlo in Australia, Bradbury parte per Salt Lake City, dove qualche giorno più tardi …
SALT LAKE DREAM. I Giochi invernali del 2002 si tengono a Salt Lake City, città dei Mormoni nello Utah. Sono le Olimpiadi di Janica Kostelic, sciatrice croata che collezionerà 3 ori e un argento nello sci alpino, e della nostra Stefania Belmondo, che a 32 anni riesce a collezionare un oro, un argento e un bronzo, risultando, con 10 medaglie, la sciatrice di fondo più vincente della storia. Nello Short-Track la stampa specializzata dà come favoritissimo il nippo-statunitense Apolo Ohno, padrone di casa. E Ohno non delude: vince i 1500 metri e arriva agevolmente alla finale dei 1000 dove si appresta, secondo gli addetti ai lavori, a un facile successo, tanto che il commentatore italiano dell’epoca, Diego Cattani, sbilanciandosi nel pronostico arriverà a chiedersi: «Si limiterà a vincere o stravincerà?». La gufata del secolo. È il 16 febbraio 2002, un giorno storico. Ma facciamo un passo indietro e torniamo alla vicenda del nostro protagonista. Bradbury partecipa ai 1500 metri, dove viene quasi subito eliminato senza lasciare traccia. Poco male per lui che è già tanto sia riuscito a riprendersi dai suoi infortuni e a presentarsi all’appuntamento olimpico, senza pretese. Steven decide anche di prendere parte ai 1000 metri, ma già ai quarti di finale si ritrova in una batteria durissima: Ohno e il canadese Gagnon, in quella che sembra una finale anticipata, arrivano agevolmente primo e secondo, guadagnandosi un posto in semifinale. Il nostro eroe giunge solo terzo, a grande distanza dai primi, ma accade il primo colpo di scena: Marc Gagnon viene squalificato per aver fatto cadere il giapponese Tamura. Steven avanza così al secondo posto. È semifinale. A proposito, per chi non lo sapesse lo Short-Track è una disciplina piuttosto maschia, e non è raro che i partecipanti si ostacolino con mezzi più o meno leciti. Non è il caso di Bradbury, che anche in semifinale si ritrova fin dai primi metri ultimissimo e senza chance di qualificazioni alla finale A, quella che assegna le medaglie. Ma siccome questa storia non ha nulla di normale, anche in semifinale accade l’impensabile: all’ultimo giro, col nostro eroe a distanza siderale dai primi quattro che si giocano i due posti per la finale, il canadese Turcotte, il cinese Li Jiajun e il sudcoreano Kim Dong-Sung vanno tutti per le terre per colpa del giapponese Terao, che per questo viene squalificato. Bradbury, che si è limitato a giungere al traguardo, vince la batteria e vola in finale. Che bella storia. Finirà qui? No, affatto! Torniamo a quel 16 febbraio del 2002. Sta per iniziare la finale alla quale partecipano Turcotte, Jiajun, l’idolo di casa Ohno e il suo acerrimo rivale, il coreano naturalizzato russo Ahn Hyun-Soo. Ah dimenticavo, c’è anche Bradbury. Il gradino più alto del podio è una questione a due tra l’americano e il russo, gli altri si giocano il podio col nostro eroe sullo sfondo. Letteralmente. Inizia la finale e, profetico, il commentatore Franco Bragagna dichiara: «Fuori dalla lotta, quasi certamente, solo Steven Bradbury».
TUTTI GIÙ PER TERRA. La finale è accesissima e vive di contatti al limite della legalità e cambi di guardia al vertice. Uno spettacolo bellissimo al quale Bradbury assiste, a distanza di sicurezza, da spettatore non pagante. Fino all’ultima curva. Il cinese Jiajun è vicino all’americano Ohno, e fiuta il colpaccio; prova a sorpassarlo ma cade, trascinando giù Ohno che a sua volta si tira dietro il russo e il canadese. Tutti giù per terra insomma. O forse no? Ah già, Bradbury! Steven resta in piedi, come Rocky nei film, e, quasi in imbarazzo e incerto sul festeggiare o meno, taglia il traguardo per primo. Medaglia d’oro! La prima di un atleta dell’emisfero australe nella storia dei Giochi invernali. Diventa un eroe in tutto il mondo quel pattinatore goffo, scoordinato e lento (il video della sua impresa commentato dalla Gialappa’s Band è divenuta una pietra miliare), che ha sconfitto la morte e gli infortuni e che, furbescamente, appena posata la medaglia al collo, annuncia lestamente il ritiro. Viene persino decorato con la medaglia dell’Ordine dell’Australia e la sua effige, coi capelli biondi gellati tipica dei surfers di Sidney, finirà su un francobollo da 45 centesimi. Dirà Bradbury: «Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario». Che sia stata fortuna, tenacia o, per qualcuno, scandalo, la vicenda dell’Ercolino sempre in piedi venuto dall’Australia ci insegna una cosa: talvolta per vincere, nella vita come nello sport, basta restare in piedi e non mollare mai, basta credere di poter “doing a Bradbury”.