«Still here in 2018» commenta su YouTube Harronmionny. Ci sono brani musicali che sembrano scritti con una forza pervasiva che ricorda la capacità della cera sciolta di attecchire sulla tela di sacco. Sono canzoni che restano incollate alla memoria. Alle volte partono da una ricerca musicale, altre volte semplicemente da un’idea popolare, ma spesso senza nessuna pretesa si trasportano nella storia culturale e musicale dell’umanità, e li rimangono per sempre. Ognuno può stilare la propria classifica chiaramente, ma alcune entrano a far parte della memoria collettiva, e sono quelle che superano ogni particolarità di genere, e di cui si finisce per apprezzare la bellezza e l’importanza al di là del fatto che magari sono lontane dai nostri gusti musicali. Ci tornano in mente “Imagine”, “Hotel California”, ma anche “Over the rainbow”. I brani classici come “Nessun dorma”, o jazz come “What a wonderful world” del grande Armstrong. E addirittura quelli più popolari come “Azzurro” di Celentano, o “Volare” di Modugno, di cui diciamo di proposito il titolo ricordato e non quello reale. Sono note che stanno lì, nei meandri della memoria, per anni quasi sopite, poi improvvisamente, riaccese da una esecuzione alla radio, tornano a portarci di fronte ad una cascata di ricordi incancellati e tanto forti da far impallidire la “Madeleine” di Proust.
L’INNO UNIVERSALE DELLA SOLIDARIETÀ. Difficilissimo scegliere “la canzone”, e forse anche fare una classifica, ma tante è impossibile non riconoscerle, se si è vissuto anche solo per po’ nelle vicinanze di un qualsiasi dispositivo sonoro. Le motivazioni per cui ciò accade sono varie, e spesso non è dovuto a nessuna considerazione di carattere estetico, ma si verifica grazie a un ritornello magico e sapiente che si attacca alla corteccia cerebrale e non se ne va più. È il caso di “We are the world”, canzone di cui oggi ricorre il trentatreesimo compleanno. Il brano nacque nel 1985 da una idea del re della musica caraibica, Harry Belafonte, personalità da sempre in prima linea per i diritti umani e le cause umanitarie. Su suggerimento del suo manager, si ripropose di coinvolgere altri cantanti per raggruppare un cast “stellare” e registrare un brano, i cui ricavati potessero essere destinati alla popolazione etiope colpita da una grave carestia alimentare. Alla chiamata risposero innumerevoli stelle del panorama musicale americano. Il tutto sulla scia di un evento simile dell’anno precedente, il progetto del singolo “Do They Know It’s Christmas?” realizzato da Bob Geldof e Midge Ure con la Band Aid. A occuparsi della musica e del testo furono l’allora ventisettenne Michael Jackson, salito alla ribalta con Thriller, e Lionel Richie. Quincy Jones, in veste di produttore per conto della Columbia Records, si accollò tutte le spese e organizzò la registrazione del brano. L’appuntamento venne fissato per le 21 del 28 gennaio, la stessa notte degli American Music Award, presso gli A&M Recording Studios di Hollywood. Qui un po’ alla volta si radunarono star del calibro di Stevie Wonder, Ray Charles, Diana Ross, Tina Turner, Bob Dylan e Bruce Springsteen. In tutto 45 artisti che si alternarono tra solisti e voci del coro. Con loro vennero ammessi soltanto tre giornalisti della rivista Life. La registrazione andò avanti per tutta la notte, e dopo dodici ore passate nella sala di incisione venne fuori la traccia che sarebbe diventata l’inno universale alla solidarietà.
UNA PICCOLA TRACCIA ITALIANA. Come singolo vendette complessivamente 7,5 milioni di copie solo negli Stati Uniti, e il successivo album degli USA for Africa “We Are the World”, in cui fu inserito insieme alla canzone “Tears Are Not Enough”, raggiunse la soglia dei 3 milioni. In questa splendida avventura, che immaginiamo di grande cordialità e divertimento, perché deve essere straordinario fare quello che più si ama pensando a portare un aiuto concreto agli altri, si trovarono a partecipare solo artisti americani, a parte il canadese Dan Aykroid, e l’irlandese Bob Geldof, l’unico membro della Band Aid dell’anno precedente. Una traccia della solidarietà italiana la si trova nel nome di uno strano partecipante agli Usa for Africa con un famosissimo nome italiano: Mario Cipollina. Si tratta del bassista di Huey Lewis and the News, altro mitico gruppo dei ruggenti anni Ottanta, che secondo alcuni rimangono gli anni di una straordinaria fertilità creativa del panorama musicale. Mario era fratello minore di un grande chitarrista, Giovanni, detto John Cipollina, e sulla strada del fratello cominciò ad amare la musica da bambino e fu particolarmente colpito dal suono del basso. Dopo l’esperienza della musica classica cominciò ad apprezzare il rock e divenne uno dei più noti ed apprezzati bassisti del mercato americano, finendo per collaborare con altri nomi storici come Frank Zappa, Chick Corea, Miles Davis e i Led Zeppelin, oltre al gruppo di Huey Lewis che gli diede grande popolarità. La cosa stana è che Mario, con la sua tipica faccia da italiano, quella notte non suonava il basso, ma come tanti altri metteva solo la sua voce al servizio del coro di una canzone che sarebbe diventata una causa ed un punto di riferimento. In Italia a dire il vero, per chiudere l’operazione nostalgia, dove oltre alla solidarietà siamo famosi per l’ironia, uscì una parodia di “We Are The World” eseguita dagli Squallor ed intitolata “Usa for Italy”, contenuta nell’album “Tocca l’albicocca”. Ma la forza di alcune canzoni rimane sempre la stessa, specialmente se serve a concretizzare gli aiuti e a regalare un sentimento di partecipazione e di appartenenza all’umano, e le emozioni che coltivava la generazione degli anni Ottanta, crescendo a suon di musica, si riaccendono con semplicità ogni volta che quelle note danzano nell’aria.