Gli Italiani hanno ben poco da sorridere quando si parla di finanza pubblica. Mentre infuria un dibattito elettorale sempre più acceso nei toni, focalizzato sulla denigrazione dell’avversario piuttosto che sui contenuti, l’asticella del debito pubblico si è fissata a 2.256,1 miliardi di euro ed il rapporto deficit/Pil rimane stabile al 132,5%. Peggio di noi, in Europa, soltanto la Grecia devastata dalla crisi del 2008.
IL DEBITO E LA TRAPPOLA DEGLI INTERESSI. Partiamo col dire che quando ci si riferisce al debito pubblico si sta parlando dei crediti che soggetti economici, esteri o nazionali, vantano nei confronti dell’Italia per aver sottoscritto obbligazioni o titoli di Stato destinati a coprire i fabbisogni di cassa del nostro Paese. Detto in parole povere, quando lo Stato ha bisogno di liquidità per erogare servizi o effettuare investimenti emana dei titoli obbligazionari o statali (Per esempio Bot o Btp) che sono acquistati da investitori nazionali o esteri che, in cambio dei soldi versati nelle casse dello stato, riceveranno alla scadenza temporale fissata dai titoli stessi l’equivalente di quanto investito, più gli interessi. Gli interessi sui titoli, generalmente, crescono o decrescono in base alla solidità ed alla credibilità del Paese che li emette. Attualmente, i titoli italiani hanno un tasso d’interesse del 2,085%, il secondo più alto dietro la Grecia, il che la dice tutta su quello che gli investitori pensano della credibilità dell’economia italiana. Il dato sugli interessi dei titoli è fondamentale ed è utilizzato da alcuni esperti per spiegare l’enorme crescita del debito pubblico italiano negli ultimi decenni. L’evento su cui alcuni economisti puntano il dito è la separazione tra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro avvenuta nel 1981 con l’avallo dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi. Per capire il significato profondo di questo passaggio storico, occorre comprendere cosa comportava l’unione dei due enti. Fino ad allora, infatti, quando lo Stato emetteva titoli per potersi finanziare, la Banca d’Italia forniva la garanzia di acquistare i titoli invenduti a tasso d’interesse prefissato. Con questo sistema lo Stato italiano aveva la possibilità di emettere i titoli a basso tasso d’interesse e di poterli vendere tutti, evitando qualsiasi speculazione finanziaria. Con il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero tutto cambia e, non esistendo più la copertura della Banca d’Italia sull’invenduto, lo Stato fu da quel momento costretto a emettere titoli, la cui vendita per essere portata a termine, doveva necessariamente riconoscere alti tassi d’interesse. È stato da quel momento che lo Stato ha cominciato a pagare interessi superiori al tasso d’inflazione e che il debito pubblico ha iniziato a gonfiarsi a dismisura. I numeri lasciano poco spazio all’immaginazione: dal 1980 al 2007 lo Stato italiano ha contratto 1.335,54 miliardi di debito, sui quali ha pagato ben 1.740,24 miliardi di interessi. Una chiave interpretativa che andrebbe a contraddire la tesi secondo la quale le generazioni che si sono succedute dagli anni ‘80 fino ai primi anni 2000 avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Tenuto conto delle dovute eccezioni, infatti, i contribuenti italiani avrebbero invece versato più tasse dei servizi ricevuti in cambio.
FATTORI INDIRETTI E INSTABILITÀ POLITICA. Esistono fenomeni che potremmo definire “collaterali” che influenzano, anche se indirettamente, la capacità del nostro Paese di rimediare alla sua enorme massa debitoria. In primis l’evasione fiscale. Le mancate entrate, come dimostrerebbe un’inchiesta recentissima dell’Ufficio Valutazione Impatto del Senato della Repubblica, ammonterebbero a 38 miliardi di euro l’anno negli ultimi 4 anni. Un macigno che pesa enormemente sulla liquidità a disposizione delle istituzioni centrali. Quantificare il danno economico che la corruzione arreca al nostro Paese è estremamente difficile. Ciò che è possibile affermare è che sono enormi i danni provocati dal fenomeno a qualsiasi livello. Basti per tutti l’esempio della regione Sicilia dove quasi 380 milioni di fondi strutturali sono evaporati quest’anno a causa di “gravi irregolarità” nella loro gestione da parte delle autorità siciliane come decretato dal Tribunale dell’Unione Europea. Bisognerebbe poi interrogarsi non solo su come viene prodotta ricchezza nel nostro Paese, ma anche come questa ricchezza viene distribuita. L’ultimo report in ordine di tempo redatto da Oxfam, dal titolo emblematico “Disuguitalia”, fotografava con precisione un Paese dove la povertà è in continuo aumento e dove le disparità nella distribuzione del reddito continuano a crescere. Un grave handicap per un Paese che avrebbe bisogno di un forte rilancio dei consumi e che vede al contrario assottigliarsi il potenziale di spesa di tante famiglie appartenenti alle fasce medio e piccolo borghesi. Infine, il capitolo inerente le prossime elezioni del 4 marzo. È ormai noto a tutti gli analisti, sondaggi alla mano, che a causa della nuova legge elettorale che verrà applicata alle prossime elezioni, il Rosatellum, sarà estremamente difficile che le forze politiche in campo maturino una maggioranza parlamentare per far nascere un nuovo governo. Generalmente, situazioni di forte instabilità politica come quelle verificatesi in Spagna o Portogallo in maniera continuativa nell’ultimo anno e mezzo sono viste dai mercati come uno spauracchio e minacciano di intaccare la credibilità dei paesi che ne sono vittima. Proprio in questi ultimi due esempi europei, tuttavia, l’instabilità non ha provocato effetti negativi diretti sulla tenuta dei rispettivi sistemi economici. I problemi legati ai conti pubblici italiani hanno radici profonde e nulla lascia pensare, purtroppo, che la situazione possa imboccare un netto miglioramento nei prossimi anni.