Il sogno di un ragazzino che gioca a basket nasce tendenzialmente quasi sempre allo stesso modo: un canestrino di plastica attaccato ad una porta di casa col nastro adesivo e una pallina arancione di materiale sconosciuto ma appiccicosissimo da buttare dentro la retina. Col tempo, però, si cresce. E talvolta la passione non resta nemmeno intatta. Si vira verso altri sport, più o meno consapevolmente, o si scoprono affinità differenti da quella verso un qualsiasi tipo di disciplina sportiva. Ma, anche se non (ancora) supportata da dati empirici, la mia teoria è che chiunque si troverà davanti un canestro, più o meno grande che sia, la prima cosa che proverà a fare, altezza permettendo, sarà quella di emulare Michael Jordan e demolire il ferro. Ve lo assicuro.
SLAM DUNK! Certe cose, anche se vengono esportate, non si possono distaccare più di tanto dal luogo d’origine. La pizza, per esempio: ormai è universale, ma vuoi mettere mangiarne una in una piccola pizzeria nei vicoli di Posillipo rispetto che ordinarla da un portale ipertecnologico in un centro commerciale del North Carolina? Dai su, non scherziamo. Allo stesso modo il basket, anche se oggi è diffuso in ogni angolo del mondo, è in tutto e per tutto americano. Del resto, se io andassi a New York a ricordare a un qualsiasi cittadino una schiacciata di Denis Marconato, dovrebbe andarmi bene che mi dicano “Marcowhat?!?”. Ma se dovessi recarmi a Tonga, circondato da tutti i lati dal maestoso oceano, e parlassi a qualcuno di Micheal Jordan, al mio interlocutore verrebbe subito in mente il giocatore più forte della storia che fluttua in aria con la palla salda il mano pronto a buttare giù il tabellone (un’immagine che, stilizzata, ha fruttato a MJ qualche soldino). Ecco, il numero 23 dei Chicago Bulls, riconosciuto come il non plus ultra dei cestisti anche da chi una palla da pallacanestro non sa neanche com’è fatta, ha permesso alla schiacciata di diventare oggi il gesto più anelato di qualsiasi altro in qualunque tipo di sport. “Slam Dunk!” urlano i cronisti d’oltreoceano quando un giocatore scaraventa la palla oltre la retina elevandosi più in alto di tutti. E un brivido corre sulla schiena di ogni appassionato.
PURE STRENGHT. La schiacciata è tutto: forza, potenza, atleticità, dominio nei confronti dell’avversario. Arrivare al ferro significa demolire il tuo opponente, che non può fare altro che subire l’onta della vergogna. È così infatti, anche per i professionisti. Ci sono cose che pure i campioni più affermati non riescono a digerire, e subire “slam dunk” è una di questa. All’All Star Game del 1997 Dikembe Mutombo, uno dei difensori più forti della NBA, si vantava, di fronte agli altri giocatori e alla stessa stella dei Bulls, del fatto che Michael Jordan non fosse mai riuscito a schiacciargli in faccia. Il centro degli Atlanta Hawks, dall’alto dei suoi 218 cm di altezza, era convinto che Jordan, 20 cm più basso, non avrebbe potuto mai superarlo. Ma fece un grosso errore. Non si diventa il più forte del mondo senza una cattiveria agonistica fuori dal comune e se Jordan è detto “His Airness” un motivo ci deve pur essere. Così, qualche mese dopo, in un match tra i suoi Bulls e gli Hawks di Mutombo, Jordan controlla palla poco fuori dall’arco dei tre punti. Tutti si aspettano il tiro, ma con una finta il 23 mette palla a terra, supera un avversario e dalla linea di fondo punta il canestro. Tra lui e il suo obiettivo si stagliano immensi i 218 cm di Mutombo. Ma Jordan si libra nel suo elemento e vola a schiacciare in faccia al centro degli Hawks. Due punti in più per i Bulls. Molti punti di autostima in meno per Dikembe Mutombo, irriso da un extraterrestre.
OPERA D’ARTE. Davanti a un Picasso o a un Rembrandt, l’osservatore dirà di avere di fronte un capolavoro. Davanti a una schiacciata, qualsiasi persona potrà dire di trovarsi di fronte ad un gesto spettacolare. È per questo che la gara delle schiacciate dell’All Star Game è uno degli eventi più seguiti della stagione cestistica in tutto il mondo, nonché uno dei più attesi. E questo perché dietro ad ogni “dunk” si cela lo stesso lavoro oscuro di un artista. Chi la compie, il più delle volte, vede qualcosa dove gli altri non vedono niente, come un pittore di fronte alla tela bianca. C’è chi nella sua carriera ha fatto della schiacciata il suo marchio di fabbrica. Vi dice niente il nome di Shaquille O’Neal? Il centro tra gli altri dei Los Angeles Lakers, forse una delle squadre più note nel globo, più di una volta nell’accanirsi contro il ferro ha sradicato letteralmente il canestro, mandando in mille pezzi il tabellone con i relativi rischi per l’incolumità sua e altrui. Ma anche giocatori più minuti, normali in un pianeta popolato da giganti, si sono resi protagonisti del gesto più bello di tutti. È il caso di Nate Robinson, alto appena 175 cm, ma vincitore di ben 3 edizioni del “dunk contest” dell’All Star Game, record di vittorie. Questo perché chiunque sogna di volare più in altro di chiunque altro. In una palestra, davanti a un canestro di minibasket, qualsiasi persona correrà col pallone in mano e proverà a schiacciare, magari gridando nel frattempo il nome del suo campione preferito. Quando da bambino giocavo col canestrino di plastica appeso alla porta della mia piccola cucina, saltavo ogni giorno sempre di più per arrivare a quel ferro. Passo dopo passo mi avvicinavo sempre di più, fino a diventare troppo grande e sradicarlo dalla porta. E pazienza se si staccava solo perché il nastro adesivo non faceva una buona presa sul legno. Perché io, in quel momento, mi sentivo proprio come Shaquille, così forte da poter mandare il tabellone in frantumi. Alla fine la schiacciata è questo: sentirsi come Superman. E ogni qualvolta vedrò anche solo un cerchio di fil di ferro appeso a un muro, cercherò di buttarlo giù.