Il nostro secolo verrà forse ricordato come il secolo delle informazioni. Si dibatte molto spesso sull’equazione “informazioni=potere” e la crescente attenzione legislativa sulle normative che riguardano il trattamento dei dati e la privacy dimostra la fondatezza di queste preoccupazioni. Negli ultimi giorni, è giunto dall’America un allarme sulla sicurezza delle informazioni che facciamo quotidianamente circolare sui nostri smartphone. Ma si tratta davvero di questo o abbiamo davanti una manovra commerciale volta a favorire le imprese a stelle e strisce del settore?
DALLA CINA CON FURORE. «Non comprate smartphone cinesi». Sono queste le lapidarie parole che il capo dell’intelligence Usa, Chris Wray, ha pronunciato alla stampa con un duro atto d’accusa nei confronti delle compagnie telefoniche asiatiche che operano in Cina, tra cui il colosso Huawei, terzo produttore globale nel settore degli smartphone dopo Apple e Samsung. A finire sotto la lente d’ingrandimento degli 007 a stelle e strisce sono stati i pericoli di infiltrazione dei cinesi nelle infrastrutture tlc americane che metterebbero a serio rischio la sicurezza nazionale. Da qui il divieto per le agenzie federali di acquistare prodotti targati Huawei o realizzati da altre imprese cinesi per lo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali. Il caso, infatti, è finito sui banchi del Congresso dove il deputato texano Mike Conaway ha dichiarato: «La tecnologia commerciale cinese è un veicolo del governo della Cina per spiare le agenzie federali degli Stati Uniti. Consentire a Huawei, Zte e ad altre entità correlate di accedere alle comunicazioni del governo degli Stati Uniti sarebbe come invitare la sorveglianza cinese in tutti gli aspetti delle nostre vite». Illazioni che i vertici di Huawei, in particolare, hanno rigettato subito al mittente rivendicando i 170 paesi al mondo con cui l’azienda collabora in maniera onesta e trasparente e gli elevati standard qualitativi in tema di cyber security che Huawei ha sempre mantenuto nel corso degli anni.
PROTEZIONISMO MASCHERATO? A volte si esagera a voler sempre fare della dietrologia rispetto agli eventi che ci troviamo a vivere o commentare, porsi dei dubbi e farsi delle domande è tuttavia connaturato alla natura del giornalismo. Ad esempio, perché sottovalutare le osservazioni di chi parla di protezionismo americano celato dietro le polemiche degli ultimi giorni sulla sicurezza cibernetica e digitale? Non bisogna dimenticare che la difesa delle imprese a stelle e strisce è stato ed è un cavallo di battaglia del presidente Trump fin dagli inizi della sua campagna elettorale, “America First”, gli interessi americani prima di tutto. E di interessi in ballo nel cosiddetto “caso Huawei” ce ne sono parecchi. La multinazionale cinese ha ricavi per 44,08 miliardi di yuan in America, circa 12 in più rispetto a quelli che ha maturato nel 2012. Il fatturato annuo dell’azienda si aggira intorno ai 35-40 miliardi di dollari ed è leader mondiale per numero di brevetti depositati. Un competitor del tutto autorevole per le imprese americane che operano nel settore. A più di qualche commentatore e analista è dunque sorto l’interrogativo sulla possibilità che il “caso Huawei” sia stato montato ad arte per ostacolare ulteriormente la capacità del colosso cinese di penetrare nel sistema economico americano sottraendo fette di mercato importanti alle imprese Usa che operano nello stesso ambito. Chi abbia ragione in tutta questa vicenda è ancora prematuro stabilirlo. Le accuse mosse dall’intelligence americana sono gravi e servirà parecchio tempo nonché analisi approfondite sui software e gli hardware prodotti dalle imprese cinesi per determinare se il caso montato negli ultimi giorni ha dei fondamenti empirici o rappresenta una manovra protezionistica mascherata.