Rossini e la danza costituiscono un binomio non poi così originale. Era il 1971 quando il genio cinematografico di Stanley Kubrick partoriva, con il cult Arancia Meccanica, un inebriante mosaico estetico. In sequenze uniche, nelle quali “ogni azione ha il suo avviamento, il suo sviluppo, la sua conclusione, senza interferenze, sovrapposizioni o concatenazioni”, le note del pesarese fungevano da pretesto pulsionale. Chiaro esempio di questa mirabile visione è l’intuizione di coniugare l’uso futuristico e anticonvenzionale del parlato all’impertinente dissacrazione di sì note musiche, prestate – per così dire – alla colonna sonora dell’agire sociale dell’antieroe protagonista nonché parte integrante del racconto filmico. Se la musica di Rossini – Leitmotiv delle scene di violenza e di sesso – soddisfa l’istinto animale e ingovernabile, tocca a Beethoven operare una distensione tra accattivanti desideri onirici e morbose fantasie. È proprio l’ouverture de La gazza ladra ad adempiere ora alla descrizione dello scontro tra i drughi e la banda di Georgie Boy, del viaggio sulla Durango verso la casa di Mr. Alexander, della colluttazione con la signora dei gatti, ora all’accompagnamento catartico della vendetta per ristabilire la supremazia del capo banda: le note diffuse da una finestra aperta nelle vicinanze sono input scatenante di una memorabile e violenta colluttazione rallenty con bastone e coltello sulle rive del Tamigi. Bastano poi soli due estratti del famoso “galoppo” e il solo di violoncello che precede il temporale nella sinfonia da “Guglielmo Tell”: una frenetica versione, parodisticamente accelerata e caricaturale, dell’Allegro vivace scandisce l’amplesso orgiastico – anch’esso incalzante – con le due fanciulle incontrate al negozio di dischi Chelsea Drugstore. Un’esasperata eccitazione emotiva, in perfetta sintonia con il visivo, finché il ritmo da martellante si fa sovreccitato, mitragliante, a evocare l’inesauribilità di energie e l’ingordigia. L’Andante è pervaso da un’atmosfera di rassegnata, dolente meditazione che diventa una caricatura sonora di un’afflizione quanto mai teatrale e stucchevole.
BEETHOVEN È IL RAPPRESENTANTE DELL’ANIMA e del vissuto personale nella sua componente più intima e pura (si pensi alla Nona Sinfonia del Ludovico Van tanto caro al protagonista). Il pesarese – la sua musica – è ambasciatore sonoro del mondo esterno, della rottura delle regole sociali, dell’altro da sé. Frenesia, carica ironica, vita. L’effetto è dissacrante, provocato dal conflitto tra istinto e ragione, tra individuo e società. Il dinamismo musicale della pellicola è trascinante, con connotazioni sempre diverse. Superbo e magistrale. Sempre carica nel crescendo, con l’artificio del ribattuto e della ripetitività tematica, la musica sposa con naturalezza ed esattezza di tempi qualsivoglia gesto e movimento. A fronte delle opportune premesse, appare singolare in tal direzione la produzione dello Spellbound Contemporary Ballet dal titolo “Rossini Ouvertures”, su coreografie firmate da Mauro Astolfi, che ha esordito al Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania il 20 febbraio scorso (repliche fino a domenica 25). Squagliata la cera – e archiviate, tra l’altro, le festività agatine – non c’è istituzione repubblicana che tenga; il parterre, alla prima del secondo titolo in cartellone, è per metà deserto. Complice senza dubbio la scelta di un balletto, che – come da abitudine – è inviso tanto all’abbonato medio quanto al pubblico occasionale e più squisitamente mondano. Il fatto che non si tratti nemmeno di un balletto della tradizione poi certo non aiuta. E se tante possono essere le giustificazioni alla proposta artistica e culturale, è altrettanto palese che la stessa sarebbe stata più coerente e sicuramente apprezzata in seno alla stagione sinfonica, in occasione della quale sovente non mancano concerti poco convenzionali. Cavalcando comodamente l’onda sicura delle celebrazioni rossiniane per i 150 anni dalla morte del compositore, l’allestimento – concepito per spazi di certo più contenuti – si struttura sulle più amate sinfonie d’opera della produzione rossiniana: da Il barbiere di Siviglia a Il turco in Italia, passando per Tancredi, Il signor Bruschino, La Cenerentola, La gazza ladra e Guillaume Tell. Poi, come se brani di tal fatta non fossero sufficienti, cercano – superflua – legittimazione nella selezione del programma anche la cavatina di Figaro “Largo al factotum” e quella per mezzosoprano “Fac ut portem” dallo Stabat Mater; la “captatio benevolentiae” del pubblico non è mai stata tanto esplicita.
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EPPURE I 71 MINUTI DI SPETTACOLO SCORRONO RAPIDI. Senza adoperare aggettivi spropositati, la trovata è semplice, onesta e funzionale. L’Orchestra diretta da Antonino Manuli esegue con brio e attenzione la partitura, riuscendo a disimpegnarsi con agilità e restituendo con disinvoltura tanto i toni più vivaci e giocosi quanto quelli più eroici e solenni. L’idea di fondo è godibile anche se un po’ pretenziosa e non di immediata comprensione per lo spettatore. Si alza il sipario, con le luci di metà sala ancora soffuse, e i nove danzatori danno le spalle, nella penombra, attendendo con circospezione. Quindi coordinano i corpi sulle amatissime note, portando in scena le memorie di vita, la “follia organizzata” del pesarese. Quasi come in una notte, di quelle troppo spesso insonni che vessavano il compositore, i corpi si atteggiano spasmodici e convulsi a cavallo tra due mondi. Un’incontinenza gestuale che materializza le passioni per il godimento fisico e sensoriale, dal cibo alla sessualità. Un’incontrollata narcosi di piacere a esorcizzare il malessere e i demoni interiori che dilaniavano una geniale personalità, ossessionando una straordinaria parabola umana conclusasi il 13 novembre 1868 con la complicità di un male incurabile. Non a caso, a luci ancora accese, una sinistra figura antropomorfa, dal manto interamente nero, si insinua strisciando carponi sul proscenio da sotto il sipario ancora chiuso: un simbolo, un presagio, un timore della morte che angoscia, convive e accompagna la dimensione onirica. Con lei un borsone contenente frutta e ortaggi che rinviano al senso del gusto e alla percezione della fame. Voracità carica di energia, di vitalità e di seduzione che a tratti risulta così intensa da ingenerare caos puro e smarrimento. Il racconto onirico e mentale si dipana da una grande parete sul fondale piena di sportelli, di ripiani e di nascondigli. L’armadio di legno marrone è simbolico e ingegnoso – non sfruttato appieno – espediente per evocare i ricordi del compositore, diaframma fra sogno e realtà. Dalla struttura, realizzata da Filippo Mancini, entrano ed escono i danzatori, tra un’indisciplinata sortita e l’altra.
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NON È LA MUSICA A MATERIALIZZARSI, QUANTO LE SUGGESTIONI. Soprattutto quando, nel finale, l’atmosfera diventa cupa e s’infittisce. Si introduce nuovamente l’incubo e l’irrazionale. Pregevole e funzionale, più di tutto, il contributo al rifinito disegno luci e al set concept apportato da Marco Policastro. Il linguaggio del corpo è universale, tanto più se la qualità dei danzatori è adeguata: si segnalano, in particolar modo, le prove di Fabio Cavallo, Maria Cossu e Serena Zaccagnini. Godibile l’intervento canoro del mezzosoprano Martiniana Antonie e del baritono Francesco Auriemma, solisti provenienti dall’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda” del Rossini Opera Festival. Le note sposano felicemente la danza e la drammaturgia da teatrodanza. Il disegno costumi firmato da Verdiana Angelucci è elegante e mette in rilievo le forme plastiche dei virtuosi corpi. La sequenza di famosi crescendo trova vigore nel movimento, spesso centrifugo e frantumato, in un costante immaginario fraseggio. La tensione emotiva è costante salvo poi dirigersi ritta verso un finale prevedibile e fosco. L’inesorabile agonia vede un ultimo guizzo di vitalità in una condensata versione della sinfonia del Guglielmo Tell che punta sicura e con netta cesura all’eroica fanfara. La conclusione è degna dell’enigmatico inizio. È quanto il pubblico – anche se non troppo numeroso – si aspetta da Rossini Ouvertures. La selezione e i tempi sono quelli giusti. La sede decisamente meno.