Matteo Renzi si dimette. Anzi no. Lo farà solo dopo essersi assicurato che il Pd non faccia da stampella al futuro governo. O forse, come sostiene il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, «punta alla sua autoconservazione e sta pensando a come rientrare in partita». Ammesso sia vero, non sarà affatto semplice. Nel giorno della clamorosa disfatta, il segretario del Partito Democratico ha convocato i giornalisti per annunciare le sue dimissioni alla luce di una sconfitta «netta e chiara». «È ovvio che io debba lasciare la guida», ha aggiunto prima di avventurarsi una serie di giustificazioni. «Il principale errore è stato quello di non votare in una delle due finestre del 2017 in cui si sarebbe potuta imporre una campagna sull’agenda europea», l’altro l’essere stati «fin troppo tecnici». «Non abbiamo mostrato l’anima delle cose fatte e da fare», ha aggiunto l’ex sindaco di Firenze. Sarebbe stato più semplice, prima di ogni altra considerazione, dire che in tempi di crisi ogni governo uscente viene punito dagli elettori.
FUGA DAL PD. Renzi non è uno sprovveduto. Conosceva i sondaggi (gli ultimi, prima dello stop, davano il Pd sotto il 22%) ed era pronto ad affrontare la debacle. Sapeva che avrebbe perso e lo scorso 26 febbraio, intervenendo a SkyTg24, aveva annunciato che non si sarebbe dimesso in caso di sconfitta. Non aveva messo in conto quelle che sarebbero state le dimensioni del crollo. I democratici si sono attestati intorno al 19%, dimezzando il consenso delle Europee 2014 e perdendo 6 punti rispetto alle Politiche del 2013. Così il rottamatore ha finito per essere rottamato dai suoi stessi elettori. Secondo l’analisi dei flussi di voto fornita da SWG soltanto il 50% degli elettori ha confermato al Pd il voto espresso in occasione delle Europee. Il 15% circa non ha votato, mentre il 34% lo ha fatto cambiando partito. Le metà di questi elettori si è spostata verso il M5S, l’8% ha preferito il centro destra e soltanto il 4% ha votato Liberi e Uguali, la cui nascita ha influito solo marginalmente sul calo dei democratici.
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IL PD ALL’OPPOSIZIONE. «Ci avete chiamati mafiosi, corrotti, impresentabili. Avete detto che abbiamo le mani sporche di sangue. Bene, ora fatevi il vostro governo senza di noi, se ne siete capaci». Matteo Renzi è stato chiaro. Nessun accordo: né con il M55, né con Salvini. Almeno finché lui rimarrà segretario. «Me ne andrò un minuto dopo aver ancorato il Pd all’opposizione». Che è come dire: vado via e mi porto la palla, se volete continuare a giocare compratevene una nuova. «Il posto del Pd è all’opposizione: abbiamo detto in campagna elettorale no a un governo con gli estremisti e noi non abbiamo cambiato idea, non stavamo scherzando», ha ribadito. Ma quale sarà il futuro di Matteo Renzi? Difficile immaginarlo ridimensionato nel ruolo di semplice senatore.
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LE REAZIONI. Intanto, il presidente del Pd, Matteo Orfini, ha convocato per lunedì la direzione del partito e dopo fisserà la data di convocazione dell’assemblea nazionale. Toccherà a quest’ultima recepire le dimissioni del segretario. Ma il Pd rischia un’ulteriore lacerazione. Per il capogruppo Luigi Zanda: «La decisione di Renzi di dimettersi e contemporaneamente rinviare la data delle dimissioni non è comprensibile. Serve solo a prendere ancora tempo». «Di fronte alla sconfitta più grave della storia della sinistra italiana del dopoguerra mi sarei aspettato una piena assunzione di responsabilità da parte del segretario» ha invece commentato il leader della minoranza Pd, Andrea Orlando, che ha definito «ambigua» la decisione di Renzi di posticipare le sue dimissioni. Per il pentastellato Alessandro Di Battista, infine, Renzi è in «confusione totale, non impara mai la lezione e pur di non dimettersi è disposto a frantumare quel poco che resta del Pd».