«Han fatto la Traviata pura ed innocente. Tante grazie! Così han guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana. Se nella notte splendesse il sole non ci sarebbe più notte»: così scriveva, contro certi impresari, Giuseppe Verdi in una lettera a Luccardi nel settembre 1854, dopo il definitivo successo di qualche mese prima al teatro San Benedetto di Venezia e a un anno dal fiasco al Gran Teatro La Fenice. Violetta è una “cocotte”, una “lorrette” o, per dirla nel nostro idioma, una mantenuta d’alto bordo. Il capolavoro operistico, appartenente alla “trilogia popolare” verdiana, si rifà al romanzo La dame aux camélias (1848) di Alexandre Dumas figlio e al relativo dramma teatrale tratto qualche anno più tardi. Un amore reso impossibile dalle convenzioni sociali come soggetto di un dramma psicologico e borghese. Con “La Traviata” il compositore di Busseto abbandona il mondo epico, mitologico e di fantasia dell’opera in costume, per consegnare al pubblico un’opera nuova, originale e attuale. Sebbene la censura impose la retrodatazione al 1700 come filtro storico, Verdi, fedele alla fonte francese, ambienta le vicende nel demi-monde parigino di prima metà ‘800. Una scelta che non mancò di destare scalpore ma, del resto, lo stesso Dumas consegnava ai posteri un tragico episodio di cronaca, ispirandosi ad una figura femminile realmente esistita e a lui ben nota: Alphonsine Rose Plessis (alias Marie Duplessis), nota e avvenente cortigiana, morta di tisi prematuramente all’età di ventitré anni nel ‘47, che, tra i tanti, aveva intrattenuto rapporti anche con Liszt, Agénor de Gramont, oltre allo stesso romanziere: a lei e a de Gramont si ispirò Dumas per i personaggi di Marguerite Gautier e Armando Duval. Femme fatale che, prima con il romanzo, ma soprattutto con l’opera di Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, è entrata a pieno titolo nella leggenda sotto il nome di Violetta Valéry. Una materia contemporanea quella che Verdi decide di affrontare, dando voce ai sentimenti individuali e all’animo femminile, e ben lontana dal tradizionale soggetto con triangolo amoroso. Una rivalità che nasce, stavolta, tra la coppia di amanti e gli schemi della mentalità borghese, personificata da Giorgio Germont. Avversione che Verdi conosceva bene a causa della propria convivenza con Giuseppina Strepponi, poco gradita anche al Barezzi, padre della defunta moglie e suo primo mecenate. Ma Verdi rispose, così, in una lettera al suocero del 21 gennaio 1852: «In casa mia vive una signora libera, indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto di ogni bisogno. Né io né lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni… A lei, in casa mia, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me… Ella ne ha tutto il diritto, e per il contegno e per il suo spirito, e per i riguardi speciali cui non manca mai verso gli altri». Con un’opera audace, quasi a tinte veriste, Verdi non prospetta semplicemente il dramma di una delle tante ragazze di campagna che nell’immoralità parigina avevano trovato un modo per vivere agiatamente, ma intenta un vero e proprio processo morale ai loro protettori/clienti e alla contraddittorietà etica di quest’ultimi. Con Traviata vanno in scena l’Amore e la morte, l’anima e il cuore, le convenzioni e le miserie del XIX secolo, della borghesia e del “popoloso deserto che appellano Parigi”. Un’opera che emoziona, scandalizza e fa riflettere. Un’infelice storia d’amore cui è toccata l’immortalità artistica. Alphonsine, Marie, Marguerite, Violetta. Sul sepolcro al cimitero di Montmartre non mancherà mai una camelia bianca.
DI NUOVO A CATANIA. E sembra ieri ma è già passato poco più di un lustro dall’ultima volta che La Traviata, indiscusso capolavoro del teatro musicale dell’Ottocento, è stata rappresentata al Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania, con una non memorabile regia di Giuseppe Dipasquale e con Yolanda Auyanet e Daniela Schillaci ad alternarsi nel ruolo eponimo della tragica eroina. A calcare la scena, ora come allora, è il soprano di origine catanese in una produzione che, in modo alquanto singolare e contraddittorio, risulta strettamente legata all’immaginario isolano sotto il profilo estetico. È Mario Pontiggia a firmare l’allestimento che la massima istituzione musicale del capoluogo di regione ha varato appena l’anno scorso e che celebra una delle pagine più gloriose della Belle Époque siciliana: fili di perle e aigrettes di piume trasportano la vicenda della cortigiana parigina a Palermo, nell’età dei Basile, tra gli affreschi di Ettore De Maria Bergler e il modernariato degli arredi di Vittorio Ducrot, dove brilla il fascino di donna Franca Florio, regina indiscussa della vita culturale isolana. Con un’impostazione filologicamente corretta vengono riccamente e con gusto definiti gli ambienti (il salone della casa parigina di Violetta, la casa di campagna, il palazzo di Flora Bervoix, la camera con letto in declivio dell’ultimo atto). Il tutto si presta, senz’altro, a facili accostamenti e raffronti, soprattutto con l’allestimento già visto qualche mese addietro e la cui idea registica di base, per quanto ben realizzata, poco giova all’opera in quanto tale: l’allusione non stravolge ma non aggiunge alcunché all’azione, trasposta com’è ai primi del Novecento. Anzi, stride naturalmente con i riferimenti spaziali e geografici. Tuttavia l’opulenza del Liberty nelle scene di Francesco Zito e Antonella Conte indubbiamente impressiona, in modo non difforme dai costumi realizzati dal primo e dalle funzionali luci curate da Bruno Ciulli. Solo vagamente intuibile – e richiamato nelle note del regista – il riferimento all’ambientazione siciliana. L’operato di Pontiggia si rivela prevedibilmente tradizionale e gradevole, anche se lo spettacolo non brilla particolarmente per dinamismo (movimenti di scena di Giuseppe Bonanno ripresi da Alessandra Cardello): prende così corpo un amore autentico e inaspettato che sconvolge la linceziosa condotta della giovane “traviata”; un sentimento osteggiato, però, dalle ipocrisie della società che la condannano per il gravoso fardello del proprio passato e della propria reputazione. Nessuna possibilità, quindi, che l’amore puro e disinteressato, lontano dalla vita mondana e dissoluta, possa trionfare. Un’ipocrita condanna morale che la costringerà a sacrificare totalmente se stessa, rinunciando alla felicità e alla vita, per il bene e la “rispettabilità” dell’amato Alfredo. Il finto perbenismo borghese, infatti, si guarda bene dall’eventualità che una relazione “sconveniente” – che vada oltre il semplice “diversivo” – possa attentare all’onore della famiglia e alla sacralità del vincolo matrimoniale. L’Amore, sebbene dopo l’iniziale turbamento e incredulità, trionfa subito nel cuore dei protagonisti. Ma il coronamento del sogno non è loro concesso.
I PROTAGONISTI. Convince, grossomodo, anche la veste più squisitamente musicale. Bastano già dalle prime note del preludio – dilatate dal suono dei violini – tormentato presagio mortifero e ritmata melodia amorosa. L’allestimento, tuttavia, risulta parzialmente carente di quella vitalità travolgente – e a tratti dolente – propria dell’opera. La sezione degli archi, ai quali sono affidati intimismo, fragilità fisica e passioni, alternano tempi eccessivamente serrati ad altri più lenti. Sul podio è lo spagnolo Jordi Bernàcer a lasciar parlare la musica, assecondando la melodia tra brevi sprazzi ed epifanie aforistiche, pur mettendo talvolta a dura prova le voci degli interpreti. Convince, invece, più delle ultime uscite, la prova del coro, validamente all’altezza del proprio compito e perfettamente integrato con scene e solisti. Ma in un teatro gremito per l’occasione, la vetta più elevata è costituita dal duetto, nella scena quarta del secondo atto, tra Violetta e Germont padre, bieco confronto tra forza dell’amore e grettezza della morale borghese. Daniela Schillaci nel ruolo del titolo è applauditissima primadonna: convincente nei toni alti, civettuola al punto giusto, si muove con naturalezza sulla scena e offre una splendida performance attoriale: convincono recitativo e aria, nella cabaletta “Sempre libera degg’io” si destreggia validamente con il bel canto d’agilità tra scale, gorgheggi e acuti, rivendicando – con un po’ di frivolezza – sul puntuale contrappunto di un tiepido Alfredo la propria indipendenza e utopica “libertà”. Alla festa in casa di Flora, è credibile nel mentire riguardo i veri motivi che la spingono lontano dall’amato Alfredo e nel ricevere l’umiliazione pubblica da parte dello stesso (che con un gesto eclatante “salda” materialmente il conto tra loro con il denaro). Mentre fuori impazza il Carnevale, relegata nella sua solitudine, la bellezza è lontana. È tardi, rimane il solo ricordo: ogni barlume di un futuro felice è svanito ma, sull’orlo del precipizio, con energico grido di ribellione si leva, spiritualmente angelicata e rabbiosamente umana contro la malattia che la strappa alla felicità tanto agognata. Mentre aspetta l’amato venuto a conoscenza della verità dal padre, confida nella pietà di Dio; pietà che la società non le ha riservato. Bene in «Teneste la promessa … Addio, del passato», «Parigi, o cara, noi lasceremo», «Gran Dio! Morir sì giovine». Il concertato, il sopracuto conclusivo e il crescendo al fortissimo rendono eterna e quasi metafisica la scena. Non manca di vitalità anche di fronte l’ineluttabile destino riservatole dal “mal sottile”. Schillaci, con maturità e rigore, senza mai scadere nel patetico o nell’eccessiva drammaticità, dà voce alla metamorfosi musicale della protagonista e fronteggia gli impervi artifici belcantistici. Ora con dolcissime ondulazioni svela il vagheggiamento amoroso, ora nella cabaletta si esibisce con slancio nel belcanto acrobatico. A lei il pubblico del Bellini tributa calorosi applausi a scena aperta e già al termine del primo atto. L’Alfredo Germont di Javier Palacios è impulsivo interprete di una prova sufficiente stanti gli evidenti limiti del mezzo vocale. Si erge, per l’imponenza dell’interpretazione e della vocalità, il Giorgio Germont di Piero Terranova, conclamato e professionista amatissimo dal pubblico etneo. Acclamato dal pubblico, nei panni dell’anziano genitore restituisce le sfumature di complicità e il tenero affetto verso l’amante del figlio. Padre dolente, dapprima tenta di difendere la rispettabilità della figlia, poi, in preda ai sensi di colpa, chiede perdono al capezzale di Violetta. Brillante baritono verdiano, intona mirabilmente «Pura siccome un angelo» e «Di Provenza il mar, il suol». Si segnalano anche le godibili prove di una spigliata Flora Bervoix (Sabrina Messina), di un puntuale Dott. Grenvil (Dante Roberto Muro) e un frizzante Gastone (Riccardo Palazzo). Non deludono nemmeno Carmen Maggiore (Annina), Angelo Nardinocchi (Barone Douphot), Gianluca Tumino (Marchese d’Obigny), Filippo Micale (Giuseppe), Salvatore Di Salvo (Domestico di Flora/Commissario). Tutta la compagnia è giusta, corretta, e tutto sembra funzionare: timidi, come imprigionati in una malinconia straniante, nonostante i turbinii festaioli. L’intima commozione del dramma borghese, le dinamiche legate ai contrasti sociali assumono una valenza simbolica e prettamente poetica. Rispettato lo schema del melodramma proposto dallo stesso Verdi (esposizione, peripezia, evento tragico, epilogo). L’azione si sviluppa con agilità, mettendo in primo piano i sentimenti dei personaggi. Con il canto di conversazione, i silenzi e le improvvise riflessioni, Traviata rivive ancora una volta, travolge e sommerge lo spettatore, in un flusso ininterrotto.
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CAPOLAVORO VERISTA. In una lettera del 1 gennaio 1853 all’amico Cesare De Sanctis, Verdi scrive: «A Venezia faccio la Dame aux camélias, che avrà per titolo, forse, Traviata. Un soggetto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto. Per i costumi, per i tempi e per altri mille altri goffi scrupoli, io lo faccio con tutto il piacere». Anticipa, così, per molti aspetti Ibsen e persino Shaw. Il “cigno di Busseto” sfidava apertamente le convenzioni sociali del tempo e la morale borghese, trasformando profondamente il melodramma e toccando un nervo scoperto della società di allora: una puttana si poteva – si può – portarla a letto, ma farne quasi una moglie superava – supera – ogni tolleranza. Il piacere è merce per la classe dominante, mentre è condanna per chi deve offrirlo e non può ricercarlo per sé se non violando l’apparato di convenzioni sociali. Non è un caso che l’opera destò grande indignazione da scomoda identificazione e un manifesto disappunto moralistico nel pubblico benpensante. Verdi contrappone alla dimensione mondano-sentimentale quella cupa, foriera di morte, di moralismo e rinuncia. Opera estremamente innovativa, sia per la forma che per il soggetto, pone al centro la figura dell’eroina perseguitata dalla sorte, debole e socialmente emarginata, una donna “deviata” che spera, con l’amore, di uscire dal ruolo di cortigiana in cui l’ha confinata la società; ma questa medesima società, con il suo perbenismo e la sua morale ipocrita, in quel ruolo la obbliga a tornare per forza. La sua morte – per mano del male romantico per eccellenza – è il prezzo da pagare per salvare l’onore di una famiglia rispettabile che l’ha respinta e costretta ad allontanarsi. Ma Fabrizio della Seta così scriveva: «Violetta muore perché è protagonista di una tragedia, ma non ci appare affatto redenta, perché non ha nulla da cui redimersi». Verdi esce dal mondo epico, mitologico, di fantasia. Non è più la leggenda, non è più la favola: è la vita, quella di ogni giorno, dove sul tavolo vengono messi gli ardori, le gelosie, i dolori, le malattie, le speranze, le illusioni, le delusioni. In una parola, i sentimenti.
I SOLITI NOTI. Storia nota è che con i titoli verdiani – e con le opere di repertorio in genere – il gran successo è assicurato. Il dilemma sorge, quindi, spontaneo: andrebbe trasformato l’ente lirico in un teatro con un unico o pochi amatissimi titoli in permanente programmazione stile West End o è altresì ugualmente – e non utopicamente – ancora possibile offrire un cartellone qualitativamente variegato e in grado di incontrare il favore del pubblico, oramai disilluso e poco accondiscendente?