Il secolo dei totalitarismi ce lo siamo lasciati alle spalle da diciotto anni. Per fortuna, lasciateci aggiungere. Era il secolo dei colori sgargianti dove politica e pensiero facevano ancora rima con identità. Il secolo delle ideologie, sistemi concettuali ortodossi che racchiudevano la realtà novecentesca in una morsa di ferro in cui per ogni cosa esisteva una spiegazione sensata, una razionalità perfetta ed infallibile. Una stagione in cui l’idea di combattere ed anche morire per le proprie convinzioni non sembrava per niente un’assurdità. L’epoca delle grandi rivoluzioni, dal bolscevismo al balzo in avanti Di Mao passando per i più recenti anni di piombo italiani. Di certo tra le ideologie più gettonate che hanno determinato il corso del Novecento è impossibile non annoverare il marxismo. La corrente filosofica che si rifaceva alle idee del filosofo Karl Marx si poneva in netta antitesi con il capitalismo e l’ideologia liberale. Marx sognava l’avvento di una società comunista che potesse capovolgere i rapporti di classe in cui il proletariato si trovava asservito alla cupidigia ed all’individualismo della borghesia, che ne sfruttava il lavoro per ottenere profitto. Nell’idea di Marx, una rivoluzione in armi avrebbe dovuto portare ad una transitoria dittatura del proletariato che avrebbe successivamente consentito la nascita di una società comunista caratterizzata dall’abolizione della proprietà privata, dalla collettivizzazione dei mezzi di produzione e dall’abolizione dell’economia di mercato. Le idee di Marx ispirarono la nascita di diverse ideologie politiche, dal comunismo al socialismo riformista ma soprattutto determinarono importantissimi eventi storici. Due di questi furono la rivoluzione bolscevica in Russia e la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Russia e Cina rappresentano oggi due potenze geo-politiche mondiali ma cosa rimane del passato che le ha condotte alla contemporaneità che stiamo vivendo? Quali modifiche ha generato l’impatto con la globalizzazione, la modernità liquida e l’economia liberista mondiale?
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IL RITORNO DELLO ZAR. Chissà cosa avrebbero da dire Lenin e Stalin sulla Russia di Vladimir Putin. Un quesito intrigante su un Paese che ha tranciato i ponti col comunismo dopo la caduta del muro di Berlino ma non si è però avvicinato agli standard democratici occidentali nella riforma del suo assetto istituzionale a dispetto delle dichiarazioni del suo presidente. Termini come dekulakizzazione, grande terrore, purghe staliniane o piani quinquennali si sono affievoliti nella memoria dei russi col passare degli anni. Il periodo del leninismo-stalinismo fu caratterizzato dalla repressione selvaggia degli oppositori, liquidati sia su base di classe come i kulaki, i contadini considerati più facoltosi (benché bastasse possedere un paio di galline ed una mucca per essere ritenuti tali), sia su base etnica e di orientamento sessuale. Fino alla metà degli anni ’50 l’economia russa fu rigidamente pianificata a livello centralistico con la requisizione delle fabbriche e delle campagne e, di fatto, l’abolizione di qualsiasi logica di mercato con l’esclusione della breve parentesi della Nep. Il clima generale coincideva con il ritratto che ne fece Orwell nel suo celebre “1984”. Uno stato di polizia fondato sulla delazione che alimentava la meschinità delle persone, le piccole invidie e le cattiverie quotidiane che portarono intere generazioni a vivere nell’incubo permanente di essere arrestate e deportate alla minima parola fuori posto percepita come sovversiva dell’ordine costituito. Tristemente celebri a questo proposito le camionette nere dell’Nkvd (i servizi segreti russi di allora) camuffate da vetture di trasporto alimentare per non allarmare eccessivamente la popolazione civile. Era la Russia dei gulag, i micidiali campi di concentramento e di lavoro forzato che fagocitarono la vita e le speranze di milioni di famiglie, come raccontò magistralmente il premio Nobel Aleksandr Solženicyn nel suo “Arcipelago Gulag”. Cosa rimane di quella Russia in quella attuale? Poco, a quanto sembra. All’economia statalista e centralista se ne è sostituita una pienamente liberista che ha consentito ad ampi strati della popolazione di arricchirsi a dismisura creando quelle disuguaglianze e quella polarizzazione delle risorse che il comunismo si era ripromesso di combattere. Qualsiasi parvenza di apparato o di “partito-stato” è stata sostituita dall’accentramento dei poteri nelle mani del presidente Vladimir Putin le cui prerogative assomigliano sempre di più a quelle degli zar rovesciati dalla rivoluzione d’ottobre. Ciò che invece sembra essere sopravvissuto di quel periodo è il culto della persona, così forte ai tempi di Stalin, e la repressione del dissenso che viene oggi perseguita in maniera più discreta ma non meno letale.
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MAO E XI: OMBRE CINESI. La valutazione del contesto cinese presenta difficoltà ed ambiguità più marcate rispetto a quello russo. Sono tanti, infatti, i politologi che ritengono la recente riforma costituzionale del presidente Xi Jinping un ritorno al passato verso un maoismo che risultò essere una dittatura assoluta di un singolo più che del partito-stato. Fin dai suoi albori, il comunismo cinese presentò delle peculiarità dovute alle caratteristiche socio-economiche del Paese rispetto alla canonica versione di quest’ideologia. La classe protagonista della rivoluzione maoista fu infatti quella contadina e non il proletariato. La cosa non sorprende se si si considera il pressoché nullo sviluppo industriale della Cina negli anni ’30 del Novecento. Da sottolineare anche la peculiare avversione verso l’intellighenzia che fu il bersaglio della cosiddetta “rivoluzione culturale” del 1966. Punto di contatto principale con il comunismo russo fu invece la velleità di gestire su base centralizzata l’economia che condusse la Cina verso il famoso “grande balzo in avanti” con il forzato dislocamento della classe contadina negli altiforni di villaggio per convertire l’economia ad un industrialismo che si rivelò fallimentare e che si lasciò dietro un scia di 30 milioni di morti. Archiviato il periodo maoista, la Cina avviò una serie di riforme per decentralizzare l’esercizio del potere nel Paese assegnando importanti prerogative gestionali ai quadri intermedi di partito ed alle sue appendici locali. Una decisione che ha comportato un’impennata negli episodi di corruzione tra i dirigenti del partito e la nascita di nuovi potentati locali di matrice praticamente feudale. È per questo motivo che la recente inversione a “U” del presidente Xi Jinping con un nuovo accentramento del potere nelle sue mani e l’abolizione del limite massimo di mandati ricopribili nella qualità di presidente della Repubblica Popolare Cinese è giudicato come in continuità col periodo maoista. Un modello che ritorna e che viene giustificato con la necessità di combattere in maniera capillare la corruzione e di governare in maniera più efficace la crescita economica, sociale e culturale della Cina a cui è stato dato un orizzonte trentennale fino al 2050. La sensazione è che l’ideologia utopistica che ha ispirato la nascita dei Paesi comunisti nell’arco del ‘900 abbia da tempo ceduto il passo ad una politica più cinica e pragmatica che ha identificato nel leaderismo e nell’accentramento dei poteri gli strumenti più adeguati per fronteggiare le sfide poste dalla globalizzazione e dal quadro geo-politico attuale.