Essere donna e vivere in un Paese musulmano come il Marocco, dove vige un’interpretazione molto letterale della legge islamica, significa trovare un equilibrio non semplice tra le proprie esigenze personali e le regole della tradizione. Il tema dei diritti civili e della loro applicazione alle donne rimane un dibattito di assoluta attualità non soltanto in Marocco bensì in moltissimi Paesi musulmani. Una riflessione profonda che coinvolge in primis proprio le donne divise tra coloro che accettano di propria volontà i dogmi della religione come atto di fede e coloro che, invece, vorrebbero avere la libertà di vivere la propria vita secondo uno stile più occidentale.
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LE DONNE GARANTI DELLA SHARIA. Di certo era difficile immaginare, in contesti sociali e religiosi così rigidi qual è il Marocco, che le donne potessero addirittura aspirare a diventare garanti della Sharia. Quella legge islamica ai cui rigidissimi dogmi, quando questa viene interpretata in maniera letterale, esse sono costrette a sottomettersi. E difatti il concorso per nuovi “adul”, una figura simile al nostro notaio, bandito in Marocco apre all’eccezionale partecipazione delle donne dopo il decreto regale emesso in tal senso lo scorso gennaio. La risposta è stata immediata: 7.632 aspiranti ‘adul’ su 18.948 candidati sono di sesso femminile. Il concorso per 800 posti si è tenuto in contemporanea in 10 sedi, nelle città di Rabat, Casablanca, Tangeri, Fes, Marrakech, Oujda e Agadir. L’adul, in particolare, redige gli atti di matrimonio, dirime le questioni ereditarie e notifica gli atti di compravendita.
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LA LUNGA STRADA DEI DIRITTI CIVILI. Trovare una prospettiva neutra da cui osservare il tortuoso e insidioso cammino di riforma che molti stati musulmani hanno intrapreso sui temi dei diritti civili delle donne è cosa complessa, prisma dalle tante sfaccettature. Ciò che appare opportuno è evitare giudizi che dipendano dalla nostra sensibilità e dal nostro punto di vista occidentale senza però scadere nel relativismo culturale, scorciatoia fin troppo semplice da imboccare. Un dato obiettivo che bisogna rilevare è rappresentato dall’avanzamento, a piccoli passi, dello stile di vita occidentale nell’universo femminile degli Stati musulmani. Vi sono moltissimi esempi che possono essere citati a riguardo. Dopo 45 anni, nella “islamissima” Arabia Saudita, è stato concesso anche alle donne di emettere “fatwa”, cioè i pareri giuridici e religiosi, nei territori del regno. Nella culla della cultura integralista del wahabismo dove le donne sono obbligate ad essere accompagnate da un uomo per svolgere le più banali routine della loro quotidianità, sarà poi possibile guidare dal giugno prossimo, una vera e propria rivoluzione prospettica. Sempre in Arabia Saudita, grazie al vento riformista sospinto dal principe ereditario Mohammad bin Salman secondo il progetto Vision 2030, le donne non saranno più costrette ad indossare l’abaya, la tunica nera che finora le ha caratterizzate, e potranno andare liberamente al cinema. In Tunisia, dal 2014 è stata abolita la legge che non consentiva alle donne di sposare un non musulmano così come la legge sul cosiddetto “matrimonio riparatore” che avrebbe consentito ad uno stupratore di evitare qualsiasi condanna in caso di sposalizio con la propria vittima. In Egitto, è stata recentemente approvata una legge contro le mutilazioni genitali femminili e dal 2015 è attiva una Commissione per monitorare la “strategia nazionale per combattere le violenze contro le donne”. Appare chiaro, in definitiva, che il Medio Oriente ed il Nord Africa si stiano muovendo, con lentezza, nella direzione di una occidentalizzazione dei costumi. Un percorso per nulla scontato considerato che in questi contesti manca totalmente una sensibilità verso il concetto di “parità di genere”, che probabilmente non trova nemmeno patria nella cultura islamica stessa. Nell’affermazione di queste nuove tendenze, sembra evidente il ruolo preponderante dei nuovi mezzi di comunicazione e della Rete in particolare.