«Pacato, tenace, senza ansie da potere né sbandamenti faziosi. In politica è tenacissimo e insistente, come la goccia che cade», così Giampaolo Pansa in un lungo ritratto su “Repubblica” del 7 febbraio 1989, ventinove anni fa, descriveva Sergio Mattarella, all’epoca ministro dei Rapporti con il Parlamento del governo De Mita oggi dodicesimo presidente della Repubblica. La stessa tenacia l’ha dimostrata nell’affrontare la crisi di governo: ha tenuto in vita la legislatura, ha dato all’Italia un governo politico rispettoso dei vincitori delle elezioni del 4 marzo, ha mantenuto in equilibrio i rapporti con l’Europa. Infine, ha riconciliato il Paese giusto in tempo affinché la festa della Repubblica non sia “profanata” dalle polemiche.
GLI 88 GIORNI DI MATTARELLA. Si è mosso come un funambolo tra veti, manovre, diktat, tatticismi, assalti e passi di lato. Ha accettato la prassi inusuale di Lega e M5s, ha concesso tempi supplementari, ha difeso gli interessi degli italiani, ha sempre agito, come sottolineato più volte, «per agevolare in ogni modo il tentativo di dar vita ad un governo». Ventiquattro ore dopo le elezioni era già chiaro a Mattarella che sarebbe stata «una partita assai difficile»: nonostante i proclami, nessuno ha vinto e la costruzione di una maggioranza sembra lontana. «Serve senso di responsabilità», dialoghi, negoziati, compromessi, esorta il capo dello Stato, rassicurando che non ci saranno «conventio ad escludendum» nei confronti di qualcuno e confidando che la soluzione maturi da sola. Avvia le consultazioni, tiene colloqui informali, fa scendere in campo Casellati e Fico per una doppia «esplorazione»: la trattativa è aperta. Ma, nonostante a giorni alterni ci si crede ad un passo dall’accordo, le interdizioni prevalgono. E quando Lega e Movimento Cinque Stelle propongono il “contratto” li lascia fare. Accoglie la candidatura del professor Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, anche quando preferirebbe un politico e non un «esecutore» come lo definiscono Di Maio e Salvini. Ma è sul nome di Paolo Savona all’Economia che si consuma la frattura. Il capo dello Stato dice un secco no. Quella nomina, per Mattarella, sarebbe come avallare le vecchie idee di Savona che proponeva un «piano B» per far uscire l’Italia dall’euro. Non ci sta, ed esercita i suoi poteri con fermezza nel rispetto della Costituzione. Siamo ai passaggi finali. Mattarella chiama al Quirinale Carlo Cottarelli per avviare un governo tecnico.
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L’EPILOGO. Il Movimento Cinque Stelle invoca l’impeachment per il Capo dello Stato, salvo poche ore dopo cambiare idea e proporre una nuova collaborazione. Inizia il valzer tra Di Maio e Salvini per mantenere i piedi l’ipotesi di un esecutivo politico. Di Maio chiama Salvini, il leader della Lega invoca elezioni in estate. Poi il cambiamento per dar vita al “governo del cambiamento”. Ritorna in campo Conte con una lista dei ministri, tecnici e politici, approvata dal presidente della Repubblica. Il giuramento al Quirinale, il rito della campanella, il primo Consiglio dei ministri. Martedì il nuovo esecutivo chiederà la fiducia in Parlamento. Si chiude la crisi di governo più lunga della storia della nostra Repubblica. Per il presidente sono stati tempi duri. Mattarella li ha affrontati con pazienza e “tenacia”, dando tutto il tempo possibile agli interlocutori ma ponendo delle condizioni non aggirabili sul ruolo internazionale dell’Italia e sull’adesione all’euro. Chissà cosa avrebbe da dire oggi Giampaolo Pansa che nel 1987 scriveva: «Osservo il limpido fervore di Mattarella e mi vien da pensare: mio Dio, che illuso. Mi chiedo come reggerà fra i carriaggi, le truppe, le grandi armate, i compromessi di potere, i pateracchi, i cinismi, le piccole viltà. Poi, di colpo, mi ricordo di suo fratello Piersanti: si fece uccidere, a Palermo, per dar sostanza a tante giuste illusioni. E allora concludo: sì, meglio aspettare, meglio sperare». Abbiamo aspettato, sperato, patito insieme a Mattarella. Oggi l’Italia dopo ottantotto giorni ha un nuovo governo.