I Neet sono quei giovani che non trovano lavoro, ma nemmeno lo cercano. Una piaga sociale, soprattutto se si considera che nell’ultimo anno la percentuale di questi ragazzi è salita al 25%, numero più alto in Europa, garantendoci la maglia nera nell’Eurozona. I dati sono impietosi, soprattutto se messi a confronto con quelli delle nazioni più virtuose, come i Paesi Bassi che si piazzano in cima a questa classifica con appena il 5% di Neet presenti nella terra dei mulini a vento. A rimpinguare i numeri che ci portano in fondo a questa graduatoria, ci pensano ad esempio le ragazze che mettono su famiglia rinunciando alla carriera lavorativa, o coloro che abbandonano gli studi a vari livelli, sia nella scuola dell’obbligo che nella carriera universitaria. Ma a chi dobbiamo imputare questo ennesimo insuccesso sul fronte occupazionale?
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POLITICHE SBAGLIATE. A influire sul numero di Neet in territorio italiano ci pensa anzitutto la scuola. Il nostro sistema scolastico, di natura sequenziale, non garantisce ai giovani di maturare la necessaria esperienza nel mondo del lavoro, e il tipo di preparazione che lascia ai ragazzi, di più ampio respiro piuttosto che specializzata, non aiuta a trovare un posto di lavoro. C’è poi la questione dei tirocini: fatti male e per poco tempo, ai ragazzi non resta una buona esperienza che permetta di farsi le ossa in vista di una ipotetica carriera. La mancanza di un indirizzo lavorativo fisso poi, con i giovani che passano spesso da un’occupazione a un’altra, fanno sì che in Italia la nuova classe lavorativa sappia fare più cose ma nessuna in maniera specifica. E poi, il problema atavico del mondo occupazionale italiano, i centri per l’impiego. Da anni queste strutture non garantiscono ciò che dovrebbero, e solo il 3,5% trova lavoro grazie a questi, con un calo vistoso e continuo che risale agli anni ’90. Difficoltà dunque per i Neet italiani, che come sempre, purtroppo, si concentrano al Centro-Sud, nonostante si registrino picchi significativi anche in quello che fu il miracoloso triangolo industriale, viste le percentuali ravvisabili, ad esempio, a Milano. Citando Galileo Galilei, che certamente non avrà incontrato difficoltà a livello occupazionale, qualcosa “Eppur si muove”.
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QUALCHE SOLUZIONE. Il passato governo e quello attuale, in qualche modo, si stanno muovendo per cercare di ovviare al problema. In quanto a formazione scolastica, è entrato in gioco il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro, che pur coi suoi limiti legati alla mancanza di retribuzione e a un’organizzazione un po’ farraginosa, ha avuto il merito di inserire nel sistema d’istruzione italiano un elemento di dualità importante per la formazione dei nostri ragazzi. Quanto a riforme, qualche elemento di discontinuità rispetto al passato era rappresentato dal meccanismo dei voucher presenti nel Jobs Act per permettere ai giovani di cercare impiego tramite aziende pubbliche e private, oltre alle agevolazioni fiscali garantite ai soggetti che si fossero impiegati nell’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori, vero motore di specializzazione professionale. Tuttavia i voucher attivati sono stati pochi, e le assunzioni a tempo indeterminato sono terminate non appena gli incentivi sono finiti. Anche il progetto “Garanzia Giovani” sta ottenendo discreti risultati, ma ciò che traspare da tutti questi esempi è una sola, lampante, verità: i mezzi ci sono, le idee pure. Il problema è che questi sono sfruttati male. Una possibilità concreta per tentare di arginare il fenomeno sarebbe quello di estendere e riformare tirocini e apprendistato, vere fucine di specializzazione professionale, che permettono, quando fatti in maniera costruttiva, di avere un vero e proprio trampolino di lancio per il giovane lavoratore. Fino ad allora ci troveremo ad avere sempre più ragazzi laureati in lettere che si arrangiano a fare gli elettricisti, facendo sia l’una che l’altra cosa frammentariamente e male. Il mercato del lavoro ha bisogno di specializzazione, oggi più che mai.