Guerre che mettono in fuga le persone dalle loro terre, che uccidono, che spezzano le famiglie. Non sorprende che le guerre rimangano così presenti nelle canzoni e negli show del britannico Roger Waters. Suo padre morì nella Seconda guerra mondiale. Suo nonno, nel Primo conflitto mondiale. Quel bambino cresciuto senza padre è ancora molto vivo in questo adulto di 74 anni. Quel bel ragazzo sulle copertine degli anni Settanta è oggi un uomo attraente che sembra ricordare Richard Gere. T-shirt nera, jeans attillati blu, occhi azzurri, George Roger Waters (Great Bookham, Surrey, Regno Unito, 6 settembre 1943), il John Lennon dei Pink Floyd, ha una lingua tagliente quando affronta temi politici. Parla con lunghe pause, pronunciando ognuna delle sillabe con un inglese molto britannico incontaminato da un accento americano, sebbene abbia vissuto per diversi anni nella città dei grattacieli.
IL GENIO CREATIVO DEI PINK FLOYD, l’uomo sofferente che viene esaltato dalle sue ossessioni, l’autore di veri e propri inni per diverse generazioni, è da un anno in tour con un nuovo spettacolo espressione delle sue impressionanti produzioni teatrali e della sua musica. Se l’orwelliano “The Wall” è stato il veicolo sonoro-visivo con cui ha girato metà del mondo, ora con il tour di “Us + Them” sembra voler fare una sorta di bilancio musicale e politico. Nello show, tra musiche leggendarie, c’è il racconto della disperazione e del disastro dell’attualità, con l’esortazione a resistere ed a recuperare il nostro senso di umanità: “stay human”, restate umani, è scritto a caratteri cubitali sui fianchi del leggendario maiale volante. Il tour, dopo aver iniziato l’anno scorso negli Stati Uniti ed essere approdato in aprile in Italia, è tornato in versione kolossal l’11 luglio a Lucca e ieri sera al Circo Massimo di Roma.
A dare il titolo al tour è una canzone contenuta nell’album “The dark side of the moon” che diede fama internazionale ai Pink Floyd.
«Sì, è legato a una canzone inserita in “Dark side of the moon” e il cui testo ho scritto nel 1973, una lettera che negli ultimi anni mi ha condotto alla seguente riflessione: quasi tutti credono che la guerra che si sta combattendo in questo momento nel mondo sia dettata da ideologia, jihad, Medio Oriente, terrorismo. Invece no, non si tratta di questo, si tratta di soldi. E in tal senso, la guerra è molto utile. “Us + Them” mostra quel mondo diviso tra quelli che soffrono di questa situazione e quelli che la sfruttano a propri fini. Se vogliamo essere veramente felici, dobbiamo stare insieme e non dividerci».
Molte delle canzoni di “Us + Them” sono dei Pink Floyd, e il resto dal suo ultimo lavoro da solista, “Is this the life we really want”. È stato facile combinarle?
«Sì, la proporzione è il 75% di canzoni che ho scritto nei Pink Floyd e il restante 25% quelle del mio nuovo album. E sì, penso che tutto sia perfettamente accoppiato, e siamo stati in grado di verificarlo dalla reazione del pubblico sin dal primo concerto. Perché è una proposta molto, molto spettacolare, in quanto tutte le singole unità diluiscono un po’ il loro protagonismo».
Lo spettacolo è uno straordinario montaggio visivo. Momenti teatrali, fuochi d’artificio, giochi laser e, quando partono le note di “Dogs”, sopra il megaschermo si ergono perfino le fumanti ciminiere della centrale Battersea di Londra alte tredici metri. Non rischia di mettere la musica in sottofondo?
«Penso che sia il contrario. Offre ai brani una copertura, un ambiente visivo e scenografico che li rende più grandi e più efficaci per il pubblico perché sono più attraenti. Pensa, inoltre, che stiamo parlando di concerti in grandi spazi e palchi. Non è come quando abbiamo iniziato con i Pink Floyd negli anni Sessanta in quei postacci …».
Come è cambiato da allora?
«Logicamente, la mia vita è cambiata molto. La gente mi è stata molto vicina, sono andati via Syd (Barrett) e poi Rick (Wright), ci sono stati incontri e disaccordi, di certo non ho più niente a che fare con i Pink Floyd e il modo di fare musica e consumarla è cambiato radicalmente. Ma ci sono cose che non sono cambiate in me, come sapere sempre quali sono le cose che mi fanno sentire bene e anche, e credo grazie a ciò che i miei genitori mi hanno instillato, ho sviluppato in tutti questi anni un desiderio per empatizzare con gli altri esseri umani. E l’obiettivo rimane sempre lo stesso: se riesco a creare una reazione emotiva, anche se è solo in una persona, con la mia musica, sono soddisfatto».
Cosa ha rappresentato per lei l’uscita dal gruppo di Syd Barrett (il primo leader del gruppo, vittima del consumo di LSD)?
«È stato molto straziante. Lo conoscevo da quando ero piccolo. È diventato matto. All’improvviso, la persona che era mia amica, un ragazzo affascinante e di grande talento, sembrava uno zombi … La band era riuscita grazie a lui, aveva composto tutte le canzoni. È stato devastante. E anche molto fastidioso. Quando ti appoggi a qualcuno che è tuo amico e scompare improvvisamente, hai la sensazione che questa possa essere la fine di tutto. Era molto frustrante e strano, ma siamo riusciti a superarlo. Ed è stato un grande cambiamento. Siamo stati tutti costretti a comporre. Avevo già scritto un paio di canzoni quando Syd era ancora nella band, quindi era già chiaro che avevo alcune idee da esprimere. Quando se ne andò, dovevo cominciare a creare tutto».
Che cosa ha imparato dal suo periodo nei Pink Floyd?
«Non penso di aver imparato troppo da quegli anni [ride]. Impari dagli errori che fai con le donne. E ne ho fatto di errori, anche molto seri. Ma alla fine impari ad essere più onesto con te stesso. La cosa peggiore è nasconderlo. E l’amore è trascendentale. Se ti arrendi, ti feriranno, ma crescerai e sperimenterai gioia. Se non ti apri ad amare, appassisci e muori. Ho anche imparato che non devi solo essere aperto all’amore carnale, stare con una donna per fare sesso o iniziare una famiglia. Devi essere in grado di entrare in empatia con le persone che hanno bisogno di te, con altri esseri umani. Aver fatto parte di un gruppo pop chiamato Pink Floyd non ha importanza, anche se mi dà una certa possibilità di esprimermi. Se non avessi fatto parte di una band così famosa, forse ci sarebbe meno interesse per ciò che faccio ora. Ma non mi importa delle etichette o del passato. M’importa sapere che le mie canzoni siano comprese dalla gente».
Nel suo spettacolo invita a resistere a Israele, a Mark Zuckerberg, a Trump, a Orban, a Salvini, a Berlusconi, al neofascismo in crescita in svariati Paesi europei, e pure a Nikki Haley, rappresentante Usa alle Nazioni Unite. Si sente un rocker, un benefattore, un agitatore, una coscienza?
«Ho notato che il pubblico vuole qualcosa di diverso quando viene a un mio concerto. È così quando qualcuno vede la mia performance live di “Us + them” o di qualsiasi altro tour. Il mio obiettivo è quello di essere in empatia con il pubblico, di avere una relazione positiva e costruttiva con tutti, per capire e nel caso andare in soccorso. Ciò significa, ad esempio, che nell’attuale situazione mondiale dobbiamo aiutare così tante persone da altre parti del mondo, persone che fuggono disperatamente o che vivono schiacciate nei propri Paesi. Quindi quando qualcuno viene alle porte del tuo confine, pieno di polvere, perché ha dovuto vivere dove viveva, devi dargli rifugio. Marine Le Pen, il fottuto Nigel Farage, Donald “Fucking” Trump (definito un “maiale” a tutto schermo durante lo show, nda) e il vostro ministro Salvini hanno torto. Dobbiamo accogliere i rifugiati, comprendere le società da cui provengono, le loro convinzioni religiose; dobbiamo fare spazio nei nostri cuori per gli altri. Non si guadagna nulla costruendo muri, indicando gli altri e dicendo: “Siamo i bravi ragazzi e questi sono i cattivi”, è proprio quello che fanno gli stronzi. E lo fanno ogni giorno, sempre, inventano storie per sostenere la loro visione, ecco di cosa si compone la propaganda, fake news. Questo è ciò che hanno in comune con Joseph Goebbels. Mi avevano di consigliato di scegliere: o fai il musicista o fai il politico. Continuerò a fare il politico finché i politici continueranno a far morire i bambini».
È questa la vita che vogliamo davvero?
«No, non è la vita che voglio e penso che non sia nemmeno per la maggioranza delle persone. È il modo di vivere che solo una parte della gente vuole, perché la realtà è che viviamo in uno stato permanente di guerra. Uno stato che viene mantenuto, finanziato, stimolato e provocato da una serie di gruppi e corporazioni politicamente molto conservatori con l’obiettivo finale che è necessario vivere permanentemente in quello stato bellico, a vantaggio dei loro interessi politici ed economici».
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La speranza di una vita migliore è nel sorriso e nell’abbraccio con cui sul megaschermo una madre accoglie la figlia su una spiaggia del Mediterraneo, mentre si innalza lo straordinario e liberatorio assolo di chitarra di “Comfortably numb” che chiudono quasi tre ore di un concerto emozionante, spettacolare e visionario.