Niente lustrini, niente paillettes. Sobrietà è la parola d’ordine. Genuina, solida, contenutisticamente valida. Si presenta così – in questa sua prima veste rinnovata – la 64ª edizione del Taormina Film Fest e il “nuovo corso” diretto da Silvia Bizio e Gianvito Casadonte, prodotto e confezionato in un miracolo di improvvisazione sotto l’egida di Videobank. I grandi nomi ci sono – in variegata concentrazione soprattutto in occasione della serata finale – meno mal assortiti rispetto al passato e la loro presenza non è subordinata al fine precipuo di praticare sano spudorato divismo isolano. Si va in sala e poi si parla di cinema, con semplicità e buon gusto. Non vi è traccia di bodyguard o deliranti teenager in caccia di selfie. Si respira un’aria diversa, tranquilla, come non accadeva da tempo. Mancano le grandi proiezioni serali al Teatro antico ma non viene negato il contatto diretto tra gli ospiti e il pubblico. Probabilmente una versione meno mainstream e più autoriale – quasi da addetti ai lavori – che fa leva sulla competenza e sul garbo di una pregevole direzione artistica. Impossibile non notare una cesura: da un modello, da un canone che snaturava e sacrificava una kermesse cinematografica. Il parterre, in senso lato, sarà pure meno nutrito e popolato ma è un bene si sia deciso di ripartire da una sì ricca offerta di film, cortometraggi e documentari, sapientemente selezionati indi valutati da una giuria competente e di qualità. Non mancano anteprime stuzzicanti, eterogenee e adatte a varie fasce di pubblico; perfettibile sì ma non troppo imperfetto. Torna protagonista il cinema; tutto il resto è fuffa. L’appeal popolare viene per un certo verso sacrificato ma non si dimentichino le vicende che hanno minato le sorti della rassegna o le circostanze e le tempistiche in cui l’edizione in questione ha visto la luce. Un punto di partenza, non di arrivo. Per il glamour e per rendere ancora più appetibile il prodotto c’è tempo e margine. Gli sforzi sono impagabili, la sostanza e il contenuto appagante. Ci si sente a casa, parte di una macchina che funziona, con moderazione e senza eccessi. Quello che manca è una legittimazione nel panorama festivaliero italiano che, per fattori contingenti, si è per certi versi smarrita ma che con, altrettanta solerzia, può essere recuperata stante il vigore di un brand internazionale come Taormina e una prestigiosa tradizione da rispolverare. C’è entusiasmo, efficienza, partecipazione. Quanto meno da parte di coloro che non antepongono altre logiche alla bontà dell’iniziativa e alla qualità dell’offerta.
CONVERSANDO CON TERRY GILLIAM. E così, in un primo illuminante incontro del ciclo “In conversazione”, Silvia Bizio ha dialogato con il regista e produttore Terry Gilliam, che si è raccontato al pubblico con ironia e semplicità, condividendo aneddoti ed episodi della sua carriera nonché la genesi di suoi numerosi film. Barba abbastanza folta, esuberante camicia a maniche corte, l’ironia e la bonarietà di sempre. Il maestro dall’eclettismo figurativo di spiccata matrice postmoderna – in cui bello e brutto, antico e moderno, sublime e kitsch, elementi di cultura “alta” e avanzi pop si intrecciano senza ordine gerarchico – si racconta e racconta l’industria stessa con entusiasmo e disillusione al contempo. Creatività dirompente e innovativa, sapienza tecnica, estrema franchezza: così Gilliam è noto e amato dal suo pubblico. Ma alla platea taorminese si presenta un novello Don Chisciotte, ostinato e impenitente sognatore. «Penso che vivere in Minnesota abbia profondamente influenzato tutto il mio cinema – racconta – vicino casa c’era una palude, un ruscello, una foresta. Ho avuto un’infanzia semplice, in campagna, senza tv ma avevamo radio e libri, e questi hanno dato il là alla mia immaginazione. La radio ti costringe a creare tutto, dai costumi alle immagini visive. Il primo film che ho visto è stato “Biancaneve e i sette nani” di Walt Disney, seguito poi da “Il ladro di Baghdad” di Micheal Powell. Questi film erano in tale contrasto con il tipo di vita e di natura che mi circondava da farmi venir voglia di tuffarmi in tutto ciò che era lontano dal mio mondo». E proprio l’immaginazione ha giocato un ruolo decisivo nella sua cinematografia: «Il film di Powell è stato anche il primo a causarmi degli incubi. Ricordo mi svegliavo tutto sudato e arrotolato nelle lenzuola per tentare di sfuggire alla tela del ragno». Gli incubi – ha detto il regista tra serio e faceto – sono stati l’inizio della mia carriera cinematografica e non lo affliggono mai durante la realizzazione del film. Sono più frequenti prima della lavorazione, durante la ricerca dei fondi per realizzare il film, e al termine, al momento di dover riempire le sale». Il regista di “Brazil” e de “L’esercito delle 12 scimmie” ha raccontato così l’inizio della sua carriera: «Sono stato fortunato perché ci trasferimmo in California, nella valle di San Fernando. A Los Angeles i film si fanno al di là della collina. Conobbi diverse persone che lavoravano a vario titolo nell’industria. Mio padre era un falegname e spesso gli chiedevo di presentarmi qualcuno che mi facesse lavorare lì. Da giovane per me i film erano davvero importanti ma non avevo la minima idea di come potessi farne uno. Poi andai a New York e da lì a Londra, dove incontrai il gruppo di comici inglesi che sarebbero diventati i Monthy Python. Con Terry Jones decidemmo che tutti quelli che si chiamavano Terry avrebbero diretto e così, essendo in maggioranza, diventai “metà regista”. La chiave è avere il proprio nome sullo schermo a seguire “directed by”. A quel punto sei diventato un regista, indipendentemente che tu sappia o meno quello che stai facendo. Io, ad esempio, sto ancora tentando di imparare come si fa».
I MONTHY PYTHON. Rivoluzionario di temperamento, Gilliam non ha negato le sue difficoltà nei rapporti con gli studi di Hollywood, che si riflettono anche nei suoi film: «Quando cominci a fare film come Monthy Phyton, avendo il pieno controllo su quello che fai, finisci per viziarti per il futuro. Non avevamo sempre ragione ma i nostri sbagli erano senz’altro più interessanti di quelli degli executive degli studios. “Life of Brian” ha avuto grande fortuna in America ma ripensandoci bene un’altra chiave per avere successo è essere amico dei Beatles. George Harrison è stato determinante in tal senso. Eravamo già quasi pronti a girare in Tunisia e nel weekend antecedente si resero conto che il copione era parecchio blasfemo e revocarono tutti i finanziamenti. Harrison era convinto che i Monthy Python fossero la reincarnazione dei Beatles in forma comica e intervenne personalmente, partecipando alla produzione. Fondammo insieme la Handmade Film e da lì nacque il progetto “Brazil”, al quale il nostro manager si opponeva fermamente. Per frustrazione andai da Micheal Palin e scrivemmo insieme il copione di “Tideland”. Volevamo fare un film per tutta la famiglia, abbastanza eccitante per gli adulti e sufficientemente intelligente per i bambini. Gli studios rifiutavano di produrre e di distribuire “Life of Brian”. Harrison nuovamente intervenne e reperì i fondi necessari, che rimase negli Usa al primo posto per cinque settimane. Avevamo avuto ragione e ingenerato la consapevolezza in noi e negli altri che si trattava di scelte giuste. A quel punto si innescava il meccanismo per cui tutti volevano facessi il loro film ed era proprio quello il momento in cui iniziare a rifiutare».
“BRAZIL”. E Terry, da uomo pragmatico quale è, dà saggio di determinazione e coraggio nel perseguire le proprie idee e i propri sogni: «Volevo fare “Brazil” e gli stessi executive degli studios erano ormai stati smentiti. Mi unii a un produttore israeliano, che poi sarebbe passato alla storia come trafficante di armi, e andammo a Cannes. Il budget in un film è importante quanto la scelta del Mall in cui andare a fare shopping. Avevamo un piccolo budget e nessuno voleva fare il nostro film. Così decidemmo di portare il budget a livelli da shopping in Rodeo Drive o Via Condotti e finì che a Cannes ben due studi litigavano per produrre questo film costosissimo. Poi mi dissero “è un buon film ma sarebbe meglio gli dessi un lieto fine”. Loro non volevano far uscire il film ma noi non avevamo i soldi per gli avvocati. Abbiamo, così, iniziato una campagna di distribuzione “pirata”, offrendo ai giornalisti un viaggio gratis in Messico per guardare il film al di là del confine della California. De Niro, protagonista del film, non concedeva interviste ma accettò l’invito di ABC e portò anche me allo show. Lui rispondeva a sintagmi e così l’intervistatore si rivolse a me domandandomi se avessi problemi con la Universal. Mostrai alla telecamera una foto di Sid Sheinberg affinché tutti potessero vederla. La Universal puntava tutto su “Out of Africa” con Meryl Streep e Robert Redford ma ai Los Angeles Film Critics Association Award fu un successo inaspettato. Peccato non andò altrettanto bene al boxoffice».
“DON CHISCIOTTE”. “The Man Who Killed Don Quixote” ha visto la luce dopo quasi tre decadi di gestazione: «Ho trascorso quasi tutta la vita a cercare i soldi per realizzare i miei film. Scrivere e dirigere il film hanno costituito soltanto una parte della mia vita, la restante l’ho impiegata a reperire i fondi. Fare film costa e l’immaginazione non è gratuita! Ho lavorato costantemente. Don Chisciotte l’ho iniziato nel 1989 quando ho ultimato “Le avventure del barone di Münchausen”. Il progetto era già pronto nel 2000 con Johnny Depp e John Rushford ma alla fine fu un disastro. Il film si è riscritto da solo in tutto questo tempo e la realtà si è mescolata alla finzione. Dopo 29 anni è un film migliore di quello che era all’inizio, quando ero più giovane. Ora sono più vecchio e saggio e il film stesso ha usato me brillantemente, o per meglio dire senza pietà. Non so perché i miei film appaiono in un determinato modo, non li analizzo. È il modo in cui vedo il mondo. C’è sempre una battaglia tra immaginazione e realtà, tra ciò che ci ispira e ciò che ci trattiene dal volare. Tutti mi chiedono di Don Chisciotte, il sognatore, il folle. Ma Sancho è il realista, l’uomo di mondo. Il conflitto tra immaginazione e realtà c’è anche lì». Un grande classico della letteratura che un maestro come Gilliam riesce tuttavia a rendere ancora più attuale: «La sfida è stata come raccontare la storia a un pubblico moderno. Tutto è ambientato al giorno d’oggi, nel ventunesimo secolo. Il film in realtà è sul cinema e sul pericolo di fare cinema. Don Chischiotte impazziva nell’epoca medievale per i romanzi cavallereschi. Oggi non si legge più ma guardiamo Iron Man e Thor. E impazziamo allo stesso modo. Con l’immaginazione di Don Chischiotte il mondo diventa più antico e straordinario. Con il cinema possiamo cambiare il punto di vista della gente, e senza superpoteri».
LA MANO DEL MAESTRO. Il regista racconta anche la tecnica del suo linguaggio filmico: «In Brazil, che ha forte influenza dell’espressionismo tedesco, ho usato molto angoli di ripresa bassi e drammatici. Uso spesso la lente ad apertura larga per evitare il close-up e prediligo la visione d’insieme per descrivere cosa succede intorno. Ultimamente mi ha forse annoiato il mio stesso stile e sono stato più ordinario. In “Paura e delirio a Las Vegas” quando Benicio Del Toro inizia a essere alterato dalle droghe la camera è molto distorta, quando è veramente strafatto la camera si appiattisce. In questo periodo sono meno interessato alla fotografia e lascio all’attore raccontare la storia. Spesso poi viene detto che i miei film hanno un impianto teatrale. Il cinema è un artificio ma mi annoiano i film eccessivamente realistici. La realtà è fuori, non sul grande schermo. Fellini è il mio grande eroe. Poi ho scoperto che veniva dal documentario. Prendeva la realtà e la portava ad un altro livello». Nella scelta degli attori sostiene di non avere un piano ben preciso: ha delle idee, incontra gli attori, alcune volte trova conferme, altre solo smentite. Adam Driver, ad esempio, non ha nulla in comune con Johnny Depp – al quale aveva originariamente pensato per il suo ultimo film – ma era adatto alla parte e non guasta il fatto lo si possa definire “bankable”, utile al film nel reperire i fondi («È un’importante parte dell’equazione»). E se l’industria cinematografica si orienta sempre più verso i film dei supereroi, a oltranza, con storia plot sempre uguali, nelle quali al massimo cambia il costume del protagonista, facendo affidamento sull’assunto in base al quale le storie della gente comune non funzionano bene, Gilliam preferisce le seconde perché sono più vere. «Mi ha fatto andare avanti la stupidità – aggiunge in chiusura – forse è stata una reazione a tutte le volte che persone realistiche mi hanno detto di mollare».