«La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo». E lo è stato davvero. Un uomo solo al comando. Sergio Marchionne ha rottamato comportamenti acquisiti, dove il maglione fra le cravatte è stato solo un aspetto estetico, ha fatto piazza pulita di pratiche gestionali ormai vecchie e di un rapporto con lo stato basato su scambi sussidi-occupazione. Ha cercato esplicitamente una rottura con il “tenere buoni tutti”, molto italiano e poco affine alla sua formazione globale. Arrivato in un’impresa tecnicamente fallita e con una proprietà nel mezzo di un difficile passaggio generazionale si è caricato la responsabilità di scelte delicatissime. Molto discusse. Spesso avversate. Marchionne ha rivoltato la vecchia Fiat come un calzino. Tanti gli strappi, alcuni mai ricuciti, come quello con i sindacati dopo la chiusura dell’impianto di Termini Imerese. Alcuni sanati dai nuovi contratti aziendali come quello con i dipendenti degli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori.
La morte Marchionne sulla stampa internazionale: «Un manager geniale»
L’IMPRESA. «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro». Nel suo curriculum si può leggere l’impronta dell’addetto al controllo di gestione e del legale di trattativa, un giusto incrocio tra business e filosofia. «Dopo la prima laurea in filosofia mio padre aveva già scelto il colore del taxi che voleva farmi guidare perché diceva che non sarebbe servita a nulla». Ma arrivarono la laurea in legge e il Master in Business Administration alla University of Windsor. Riattraversa l’oceano, una sosta di due anni in Svizzera giusto il tempo per rilanciare la Sgs, e poi la carriera in Fiat. Ricordiamo tutti come è andata. E ce lo ricordano i numeri. Oggi, nel giorno della scomparsa di Marchionne, il suo successore Miki Manley annuncia l’azzeramento del debito. Dai numeri di bilancio aggiornati alla fine di giugno emerge che Fca per la prima volta ha una liquidità netta industriale di quasi 500 milioni di euro. Una delle tante imprese targate Marchionne. «Dobbiamo evitare di essere arroganti. Il successo non è mai permanente, ma deve essere guadagnato giorno per giorno». E lui (forse) ci è riuscito a guadagnarselo nei quattordici lunghi alla guida della Fiat. «Ho cercato di organizzare il caos – ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un’istituzione del paese in cui sono cresciuto». E ancora: “Ho letto in questi anni molti libri sul legame tra la Fiat e l’Italia. La tesi generale è che se la Fiat va bene, l’economia italiana tira, aumentano le esportazioni, aumenta il reddito, crescono i posti di lavoro. Insomma, ciò che è bene per la Fiat è bene anche per l’Italia. Credo sia vero, perlomeno in parte, e comunque ci impegneremo perché ciò accada. Ma credo sia ancora più vero il contrario: ciò che è bene per l’Italia è bene per la Fiat.
Addio a Sergio Marchionne, l’uomo che guidò la Fiat nel futuro
L’EREDITÀ. Un cammino lungo, faticoso, non privo di qualche ostacolo. Il primo lo incontro a Termini Imerese. L’allora ministro Sacconi propose implicitamente il vecchio scambio: un prolungamento degli incentivi alla rottamazione in cambio del mantenimento dell’impianto siciliano. La risposta di Marchionne fu no: un’impresa che compete su mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita. Marchionne chiuse lo stabilimento e la Fiat smetteva di contare sull’aiuto pubblico. Il secondo, più noto, è l’uscita dal sistema di contrattazione collettiva e la stipula di contratti aziendali. Abbandonava le vecchie logiche e instaurava nuovi rapporti con i lavoratori. I risultati della “filosofia Marchionne” sono evidenti. Marchionne ha dimostrato coi fatti che la sfida si può vincere. Un’impresa sull’orlo del fallimento è diventata una multinazionale solida e ben posizionata sulle due sponde dell’Atlantico, con una serie di marchi che hanno spostato il baricentro sul segmento premium. Il top manager consegna idealmente ai colleghi alcune indicazioni: «Noi lavoriamo in un settore in cui il metodo e il processo sono fondamentali. Noi saremo sempre come la musica, improvviseremo, saremo agili, aperti al dibattito, umili, ma impavidi e non ci sarà mai posto per la mediocrità».