Il social network più famoso al mondo, Facebook, è ormai diventato, nel bene o nel male, un’estensione della nostra quotidianità. Lo strapotere economico del visionario e luminare progetto dell’imprenditore informatico statunitense era finora riuscito ad uscire indenne da qualsiasi tipo di critica o scandalo, da quelli sull’evasione fiscale alle ben più serie accuse di aver contribuito ad influenzare le elezioni Usa. Lo hanno invece tradito i mancati risultati che gli azionisti si aspettavano di veder comparire nell’ultimo trimestrale. L’azienda, benché sia in crescita, non ha centrato gli obiettivi prefissati, denotando una situazione di sofferenza e di mancata efficacia dell’azione dirigenziale che è stata immediatamente punita dai suoi azionisti.
UNA PUNIZIONE SEVERA. A leggere i numeri verrebbe da dire che il termine “punizione” assume addirittura i contorni di un eufemismo. Diciannove punti percentuali in un solo giorno, l’equivalente di 120 miliardi di dollari, oltre a rappresentare un record negativo assoluto significano una stangata che vale un sesto del patrimonio attuale di Facebook. A cosa bisogna ascrivere dunque questo cataclisma finanziario? Corruzione? Bolle speculative? Scandali di varia natura? Semplicemente, ricavi al di sotto delle aspettative. Una crescita non all’altezza degli appetiti degli investitori ha determinato un crollo storico per la storia delle transazioni finanziarie. Una circostanza che ci porta a riflettere seriamente sull’attuale potere dell’alta finanza, sulla sua capacità di spostare incalcolabili somme di denaro nel giro di un click, sui suoi voraci appetiti che la legislazione internazionale non riesce ad arginare. Il crollo di Facebook si è trascinato dietro le perdite di aziende altrettanto quotate come Amazon e Netflix che mantengono un tasso di crescita annuale, tuttavia, estremamente positivo. Un’altra interpretazione che circola negli ambienti finanziari e che vale la pena citare è quella secondo cui, al contrario, il crollo sarebbe stato determinato dalle valutazioni degli azionisti sull’impossibilità che le stesse azioni raggiungessero un valore superiore a quello toccato il 26 luglio. Da qui la volontà di vendere per fare cassa. È giusto precisare come Facebook sia, per ora, ben lontana dal rischiare eventuali crack finanziari. Con una base di oltre 2,5 miliardi di iscritti in tutto il mondo ed un valore azionario di oltre 500 miliardi di dollari, il colosso informatico poggia su piedi d’acciaio e non di argilla. Almeno per il momento.
GLI SCANDALI. Negli ultimi tempi Facebook è rimasto invischiato in scandali eclatanti. Il più recente rappresentato dalla clamorosa fuga di dati che ha visto protagonista la società britannica di elaborazione dati Cambridge Analytica. Nel 2013, infatti, il ricercatore dell’università di Cambridge Aleksandr Kogan creò un quiz che consentiva di incrociare i dati degli utenti e che ha consentito al ricercatore di accedere di fatto ai dati di decine di milioni di persone prima che l’app e quelle ad essa collegate venissero rimosse dalla piattaforma. Dati che sarebbero poi stati ceduti alla società britannica dallo stesso Kogan in quella che potremmo a buon diritto definire una delle fughe di dati peggiori degli ultimi anni. Un accadimento che Facebook, per bocca dello stesso Zuckerberg, ha ammesso di non essere stato in grado di prevenire e che ha determinato class action da parte degli utenti e sanzioni a pioggia in tutta Europa da parte degli Stati membri. Tuttavia i problemi in quest’ambito non sembrano essere ancora finiti per l’azienda statunitense. Solo qualche settimana fa, Forbrukerrådet, l’associazione di consumatori norvegese, ha pubblicato un rapporto in cui accusa Facebook di aver tentato di manipolare le scelte dei consumatori sulla condivisione dei propri dati nel processo di adeguamento alla nuova normativa europea sul trattamento dei dati personali (Gdpr). I ricercatori norvegesi hanno analizzato i popup che Facebook ha inviato a tutti i suoi utenti con lo scopo sia di informare sulle nuove norme che regolano il trattamento dei dati e sia per richiedere il consenso al loro utilizzo. Tuttavia sembra che nel processo siano stati utilizzati vari escamotage per “indirizzare” le scelte dei consumatori: dalle impostazioni predefinite già settate sul consenso, al bottone per modificare gli stessi messo ad arte in secondo piano, fino all’out-out (o accetti o cancelli il tuo account), davvero poco in linea con le nuove normative comunitarie volte invece a dare al consumatore tutti gli strumenti per decidere come gestire sul web i propri dati personali.
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