Si chiama Dewayne Johnson, ha 46 anni ed un linfoma non-Hodgkin, il primo a far causa alla Monsanto in quanto ritiene che la sua malattia sia stata causata dall’uso dell’erbicida Roundup, un prodotto a base di glifosato. La multinazionale di biotecnologie agrarie, acquistata a giugno da Bayer, è stata condannata a risarcire 289 milioni di dollari all’uomo malato di cancro, ex giardiniere e custode di istituti scolastici nella zona di San Francisco, in quanto non avrebbe adeguatamente avvertito sui rischi nell’utilizzo del prodotto contenente glifosato, una sostanza già al centro di polemiche e dispute legali. La Monsanto respinge le accuse e ha già annunciato che farà ricorso in appello. Ma negli Stati Uniti ci sono fino a 5000 processi simili al caso Johnson e che ora potranno contare su un precedente importante. Il primo inizierà quest’autunno a St. Louis, in Missouri.
LA SENTENZA. La sentenza contro Monsanto, emessa da un tribunale di San Francisco, è la prima che sostiene un legame tra il glifosato e una diagnosi di cancro. Nel 2014 Dewayne Johnson ha notato alcune macchie sulla pelle. Aveva 42 anni quando ha iniziato a sviluppare un’eruzione cutanea e gli è stato diagnosticato un linfoma non-Hodgkin, oggi in fase terminale. Al processo è stato raccontato anche un episodio particolare. A causa di un malfunzionamento dell’innaffiatore, Johnson si era cosparso di erbicida. Preoccupato, aveva chiamato due volte la Monsanto tramite il numero verde per informarsi su eventuali rischi ma, secondo quanto ha raccontato, nessuno l’ha mai richiamato. A spingerlo alla denuncia è stato il suo datore di lavoro, mentre la multinazionale non avrebbe adeguatamente avvertito sui rischi nell’utilizzo del prodotto contenente glifosato. Una tesi sposata anche dal tribunale che ha anche riconosciuto come cancerogeno il glifosato contenuto nel Roundup prodotto dalla Monsanto. Durante il processo i legali della multinazionale hanno sostenuto la tesi secondo cui il linfoma non-Hodgkin impiega diversi anni prima di manifestarsi e che quindi il custode si sarebbe ammalato prima di iniziare il lavoro di giardiniere. Monsanto intanto annuncia appello. E la tedesca Bayer, che lo scorso giugno ha acquisito il marchio americano per quasi 63 miliardi di dollari, precisa: «La decisione della giuria non cambia il fatto che più di 800 studi e valutazioni in tutto il mondo hanno confermato che il glifosato non è cancerogeno»
LA BATTAGLIA SUL GLISOFATO. Quella sugli effetti del glisofato è una attaglia non solo giudiziaria, ma anche scientifica. Introdotto nell’agricoltura statunitense negli anni Settanta, grazie a costi ridotti ed efficacia di risultati, è diventato il diserbante più diffuso al mondo: è approvato in 130 paesi su più di cento colture diverse. Ma l’uso della sostanza ha sollevato sempre maggiori perplessità, che sembrarono autorevolmente confermate nel 2015. Quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità inserì il glifosato tra le sostanze «probabilmente cangerogene» per l’uomo. La decisione seguì uno studio dell’Agenzia Internazionale per la ricerca contro il cancro (Iarc) secondo cui è probabile che il glifosato sia cancerogeno, nonostante non sia provato. Sono seguite altre ricerche. Nel 2017 l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha ritenuto «improbabile che sia genotossico o che rappresenti un rischio di indurre cancro per l’uomo». E la Echa, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, aveva deciso di non classificare il glifosato come sostanza cancerogena perché riteneva che non ci fossero abbastanza prove per sostenerlo. A parte le diversità dei metodi d’indagine, a complicare le cose contribuiscono anche i sospetti che alcune ricerche siano “contaminate” dagli interessi delle multinazionali che finanzierebbero studi e analisi.
L’USO IN ITALIA. Una contrapposizione di pareri che si riscontra anche sul fronte dei divieti. Basti pensare che lo scorso novembre i paesi Ue riuniti in Comitato d’appello hanno votato a favore del rinnovo dell’autorizzazione del glifosato per cinque anni. A favore si sono espressi 18 Paesi, 9 i contrari (tra cui l’Italia), astenuto il Portogallo. In ogni caso, dal 2016 sul nostro territorio non è possibile utilizzare il diserbante in aree sensibili, come parchi, scuole, aree giochi, campi sportivi. Oppure prima dei raccolti o in terreni in cui possono facilmente penetrare nel sottosuolo. Posizione presa dai precedenti governi, che non viene sconfessata da quello in carica. Il vicepremier Luigi Di Maio su Facebook: «Questa sentenza ci dà tristemente ragione: dobbiamo combattere l’invasione sul nostro mercato di questa sostanza, una minaccia che si concretizza con mostruosi accordi commerciali sottoscritti solo in nome del profitto. La salute e il principio di precauzione sono il faro della nostra azione di Governo. Basta ad accordi commerciali che mettono a repentaglio la salute dei cittadini.».