Se Eschilo aveva concentrato la propria produzione sul tema dei rapporti fra mondo umano e mondo divino, Sofocle – poeta d’altrettanto salda religiosità – pone al centro della sua attenzione essenzialmente l’uomo e gli aspetti di necessità che indissolubilmente legano quest’ultimo al destino. Così, pur continuando la teologia eschilea a fare da sfondo alle vicende cantate, è la nuova figura dell’eroe tragico, protagonista dell’evento teatrale, ad assumere una posizione centrale non solo sulla scena ma soprattutto nella riflessione che esso stimola, in linea con la laicizzazione dell’uomo e della sua cultura, sotto la possente spinta della Sofistica: ne erano prova, fra l’altro, la nascita della scienza medica di Ippocrate e della storiografia con Erodoto. Esplicativo esempio ne è “Antigone”, portata in scena nella suggestiva cornice del Teatro Antico dalla Fondazione Taormina Arte in seno al cartellone della rassegna Anfiteatro Sicilia. Un punto di rottura per la tragedia e per il suo complesso processo evolutivo verso quella che Aristotele nella sua “Poetica” avrebbe definito “la forma naturale”: a partire proprio dalla rappresentazione di una “trilogia slegata” (eccezion fatta per la “Tefalea”) – composta da tre drammi indipendenti l’uno dall’altro nell’argomento – che consentiva all’autore l’approfondimento di singole figure anziché tematiche di ordine generale, fino ad arrivare ad innovazioni formali quale l’abituale impiego del tritagonista, l’aumento del numero dei coreuti e l’impiego della scenografia. Innovazioni quelle della produzione sofoclea che – quasi in una parallela paradossale controtendenza con le attuali sorti delle realtà teatrali moderne -gravavano invece sul bilancio statale, facendo incondizionato affidamento nella vicinanza dell’autore del demo di Colono, già agiato stratega e presidente del collegio degli Ellenotami, alle posizione politiche di Pericle.
Proprio in Antigone, rappresentata nel 442 a.C. in occasione delle Grandi Dionisie, il tema della sepoltura che nell’Aiace trovava spazio solo nella seconda parte del dramma, diviene elemento scatenante dell’azione scenica. Un dramma di due protagonisti irrimediabilmente divisi dal ruolo che si trovano a svolgere, entrambi responsabili di una grave e deliberata trasgressione: Antigone alle leggi della città, Creonte a quelle sacre. L’idea che contro una persona particolarmente odiata si potesse esercitare la vendetta anche dopo la morte non era nuova nella cultura greca: già nell’Iliade, Achille infieriva sul cadavere di Ettore per diversi giorni, non pago di averlo ucciso. Allo stesso modo il nuovo re di Tebe vorrebbe che la punizione del tradimento colpisse il ribelle nipote Polinice anche se già cadavere. Ma il tempo scenico della vicenda teatrale è meno lontano del tempo mitico: gli spettatori di Sofocle non erano gli ascoltatori del canto epico – per i quali il gesto del Pelìde rientrava in una prassi feroce ma ben accetta – ma i membri di una società basata sul diritto e dunque portata a giudicare il comportamento di Creonte come vera e propria barbarie. Il contrasto è espresso nella forma più palese e l’andamento a “quadri staccati” – indizio di arcaismo compositivo – evidenza quattro scene fondamentali consistenti in altrettanti scontri tra i due antagonisti, nelle quali ciascuno è del tutto incapace di comunicare con l’altro. E così un validissimo cast, composto da Massimo Venturiello, Giulia Sanna, Ludovica Bove, Stefano De Santis, Francesco Patanè, Carla Cassola, Andrea Monno, Franco Silvestri, Andrea Colangelo, Angelo Tanzi e Giuseppe Spezia, porta brillantemente in scena il contrasto nel rapporto tra legge naturale e legge umana, tra re e suddito e, più in generale, tra potere politico e cittadino: non è un caso che Hegel nella “Fenomenologia dello Spirito” abbia visto nel conflitto tra i due personaggi il riflesso dell’antitesi tra Famiglia e Stato. Quanto al primo dei temi va rilevato che, in base alle usanze tradizionali, anche a chi avesse tradito la patria spettava la sepoltura ma non entro i confini della sua terra; Creonte quindi col suo ordine si spinge ben oltre il limite della pena prescritta sebbene emanare editti che implicassero l’obbligo di obbedienza fosse diritto incontestabile del sovrano. Così, quando Antigone viola l’ordine, questo vede la propria autorità politica messa in discussione, persino da parte di una donna, membro della sua famiglia. Antigone compie e ripete il rito, in aperta e dichiarazione opposizione a un ordine che, per quanto emesso dal potere costituito, viene giudicato in contrasto con le leggi del sangue, degli inferi e del cuore, ben più antiche e sacre di quelle scritte.
E così l’Antigone di Giulia Sanna restituisce una grande forza d’animo che trae origine dalla stessa esperienza di vita dell’eroina. Già nell’antefatto la sventurata principessa appare l’unica persona che abbia il coraggio e la forza di accompagnarsi, fra umiliazioni e patimenti di ogni tipo, all’individuo più turpemente peccaminoso che avesse mai visto la luce del sole, eppure a lei padre e fratello: Edipo. Per di più ha visto morire i due fratelli, sua unica speranza. Ecco perché non può condividere i timori della sorella Ismene, né accettare ancora le regole di un mondo fatto dagli uomini, in cui i sentimenti sono messi al bando, lei «nata per condividere non l’odio ma l’amore». Punendo la nipote, il quanto mai ieratico Creonte di Massimo Venturiello, autentico inossidabile leone da palcoscenico, è esempio di assoluta inflessibilità in fatto di giustizia. È la ragion di stato di marca sofistica, mirante esclusivamente all’utile, e data da Sofocle come perdente, in quanto proprio il suo alfiere ne uscirà annientato. Nel bando del sovrano poi affiora una certa tracotanza che si traduce, come nell’Aiace, nello scarso rispetto verso gli dei, rappresentati dal travolgente Tiresia di Carla Cassola che egli insulta come un prezzolato bugiardo; inoltre, nella pervicace volontà di punire un nemico anche da morto, Creonte si comporta proprio come il Menelao dell’Aiace, e tutto ciò si aggiunge al conto che egli pagherà alla fine. Quanto al convincente Emone di Francesco Patanè, nella sua accorata difesa della promessa sposa, si mostra incapace – perché innamorato – di comprendere il punto di vista del padre, le cui decisioni provocheranno la rovina dell’essere a lui più caro: mette in risalto l’isolamento ed è questa una solitudine che il sovrano di Tebe condivide con la sua antagonista, nel segno della comune intransigenza. Ad aggiungere pregio all’allestimento – che già si fregia di solide interpretazioni, delle sobrie scene d’atmosfera un po’ gotica di Alessandro Chiti, dei costumi di elegante fattura firmati da Helga Williams e delle musiche composte da un inesauribile Germano Mazzocchetti – è la particolare caratterizzazione della protagonista che, con quei suoi tratti così diversi, finisce col far diventare quest’ultima una figura a suo modo “sperimentale”; interpretazione che nettamente si staglia contro il protagonista maschile, che conserva la naturale connotazione di arroganza e strapotere contenuta nel suo stesso nome (dal greco “potente”, “signore”).
Vanno in scena ed emergono spontaneamente gli influssi sofistici che, oltre ai contenuti squisitamente ideologici, attengono agli aspetti stilistico-retorici e si manifestano soprattutto nelle strutture discorsive che scandiscono, in un gioco di opposizioni e di antitesi, lo scontro dei diversi antagonisti. La tecnica è quella dei “Δισσοὶ λόγοι”, “ragionamenti duplici” e discorsi contrapposti che già caratterizzavano il contemporaneo teatro di Euripide. C’è l’ironia e il paradosso nelle parole di Antigone e Creonte in un concitato dialogo, riconducibili anch’essi a influssi socratici e sofistici. Il teatro greco è figlio del tempo ma non può non subire le influenze, sul piano espressivo, dei mutamenti culturali e di costumi, senza tuttavia che ciò implichi necessariamente un’adesione dell’autore ai contenuti ideologici che tali mutamenti esprimono. Ma Antigone, donna emancipata simbolo del coraggio, del diritto naturale, della libertà di coscienza contro ogni forma di sopraffazione, si contrappone al modello di donna ideale incarnato dalla sorella Ismene ed è spunto di disarmante attualità e di riflessione: problematizza ragioni contrapposte, ma con argomentazioni egualmente valide, senza per ciò solo indicare una soluzione incontestabile. Può rimanere impunito chi trasgredisce la legge? «L’uomo sarebbe lei e non io se restasse impunito questo gesto di forza»: nelle parole di Creonte si coglie la concezione che la Polis ha della donna.
Il coro commenta l’evolversi degli eventi e accompagna il ritmo serratissimo di una drammaturgia che mantiene costante il carico di tensione. «Non mi vergogno di essere diversa», urla Antigone alla sorella Ismene (Ludovica Bove), per sua natura più remissiva, che rifiuta di aiutarla nell’impresa per due motivi: è un atto vietato e, soprattutto, non è un’azione per donne. La regia di Venturiello è attenta a esaltare questa complessa trama sotterranea, che va oltre la vicenda della sepoltura di Polinice. Perché il fatto che ad andare contro il potere e contro le leggi sia una donna rende il tutto ancora più grave. Creonte lo sottolinea diverse volte. «Bisogna difendere l’ordine costituito e non permettere che le donne abbiano la meglio su di noi. Se proprio si deve perdere, meglio essere vinti dalla mano di un maschio, senza che si dica in giro che siamo inferiori alle femmine», dice al figlio Emone. Lo mette in guardia dal pericolo di diventare «schiavo di una femmina».
Oltre all’invisibile “guerra tra i sessi”, Venturiello dà corpo anche a un altro concetto, di cui la storia di Antigone è la prova: le colpe dei padri ricadono sui figli. Lei e i suoi fratelli scontano i peccati della stirpe dei Labdacidi in una catena senza fine di orrori e tragedie. Lo dice lei stessa a Ismene quando apprende della morte di Eteocle e Polinice, reciprocamente uccisi, trafitti l’uno dalla spada dell’altro. Dunque è preoccupata per le loro sorti, di ciò che accadrà loro, uniche superstiti. Sullo sfondo della vicenda già si stagliano idealmente Labdaco, Laio, Edipo, Giocasta, Eteocle. L’Antigone con la regia tradizionale di Venturiello è un’occasione sfruttata – su un grande palcoscenico – dalla forma semplice ed elegante. Ed è un bene che certi titoli e il teatro di qualità faccia ritorno in un sito millenario che ha visto esibirsi i più grandi e che oggi si vede relegato a ospitare principalmente concerti di ogni sorta e un pubblico poco avvezzo alla prosa. Non ci si sorprenda se poi, dopo anni di un’insipiente politica di sfruttamento dissennato del sito archeologico in termini di offerta artistica, la risposta del pubblico delle medesime sacre pietre che hanno visto le performance dei più grandi non sia più la stessa. Si è distrutta una tradizione, andrebbe rifondato un pubblico.