Si è spenta una delle più grandi voci del Novecento, la più autorevole e la più influente, Aretha Franklin. La regina del soul è morta nella sua casa di Detroit, a 76 anni, a causa di un cancro al pancreas che le era stato diagnosticato nel 2010. Di quella voce unica, inimitabile, sacra eppure sfacciatamente profana, che è stata il motore dei balli degli anni Sessanta, la colonna sonora delle marce per i diritti civili e la musa ispiratrice di intellettuali e leader neri come Langston Hughes, James Baldwin, Martin Luther King e Malcolm X, la grande Lena Horne una volta disse: « È un tesoro della cultura afroamericana. Spontanea, potente, esplosiva. La sua generosità mi fa piangere».
«A PALERMO UNA SERATA INDIMENTICABILE». Aretha Franklin è un talento insuperato, ma in Italia non l’abbiamo quasi mai vista in concerto. Colpa della paura. Paura di volare. Aretha Franklin aveva cancellato l’Europa dai suoi impegni per evitare di salire su un aereo. Lo stesso motivo per cui all’epoca Mina, corteggiata da Sinatra e dagli impresari di Las Vegas, rifiutò prestigiosissimi ingaggi negli Usa. Ma al contrario di Elvis Presley, che gli aerei li pilotava ma ostinatamente schivò il vecchio continente, la Franklin fece un paio di visite in Europa che hanno lasciato tracce profonde nella storia del pop. Tutto si consumò tra il 1968 e il ’70, gli anni d’oro del soul, quando la diva vinse i suoi primi tre Grammy Award (ne avrebbe fatto incetta fino al 1975), finì sulla copertina di Time e cantò all’Olympia di Parigi. Fra i pochi fortunati in Italia a poterla ammirare dal vivo furono i centomila siciliani (così raccontano le cronache del tempo) che parteciparono a Palermo Pop 70, un concerto da leggenda, con Duke Ellington e, appunto, Aretha Franklin. Tra i testimoni di quella sera c’era il regista Mario Bellone, che ha riassunto quella Woodstock in chiave siciliana, svoltasi allo stadio comunale, nel documentario “Dreaming Palermo”. Il regista in particolare ricorda che «Aretha, che alloggiava all’hotel La Torre a Mondello con i suoi musicisti, arrivò con oltre un’ora e mezzo di ritardo. Il pubblico cominciò a mugugnare, pensando a un bluff». Ma a cosa era dovuto il ritardo? «A quei tempi – dice Bellone – gli artisti conducevano una vita dissennata. La regina del soul, quella sera, forse aveva esagerato: sembrava non sapesse neanche in quale città si trovasse. Arrivando allo stadio, la situazione cambiò totalmente. Salì sul palco, si esibì con la sua band e quattro bellissime coriste di colore e suonò anche il pianoforte, come la straordinaria professionista che era. Una serata indimenticabile». Quando Aretha sbarcò in Italia nel 1969, con le sue parrucche e i bauli carichi di preziose mantelle e copricapo afro, aveva ancora quella carica esplosiva che solo molti anni dopo avrebbe annacquato con visoni, cascate di diamanti e violini, prima del ritorno in grande stile nel film “The Blues Brothers” con una fantastica riedizione di “Think”, nel 1980. La sua ultima esibizione è stata lo scorso novembre a New York al gala della fondazione di Elton John per la lotta all’Aids. Il suo ultimo concerto, invece, risale al giugno 2017 mentre nel 2009 aveva cantato per l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca rifiutandosi, invece, di farlo quando è stata la volta di Donald Trump.
ICONA DI UNA NUOVA CULTURA. Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Mahalia Jackson, Dinah Washington, Bessie Smith, Nina Simone, hanno tutte aperto la strada alla perfetta sintesi che Aretha Louise Franklin ha saputo realizzare. Una sintesi alla quale è arrivata in anni di duro e instancabile lavoro, perché lei, fin da giovanissima, sapeva che la musica era la sua strada. Aretha aveva esordito con un blasonatissimo mecenate, Albert Hammond, lo scopritore di Bessie Smith e Billie Holiday. L’aveva sentita cantare nella chiesa battista dove suo padre era pastore e stordito dalle enormi possibilità di una voce che non conosceva confini, si mise in testa di “costruire” una diva che riassumesse in una sola figura l’enorme statura gospel di Mahalia Jackson e la raffinata verve jazzistica di Ella Fitzgerald. Aretha si fece guidare, cercando di tenere bene in mente la lezione di Dinah Washington, la formidabile urlatrice che l’aveva tenuta sulle ginocchia quando era ancora una bambina nella parrocchia di papà, a Detroit. Per sei anni Hammond le fece incidere dozzine di canzoni in bilico tra jazz e pop; pregevoli, ma fuori sintonia con la sua prepotente e spontanea vena interpretativa. «Tutto quello che canto arriva dall’anima», diceva lei. Hammond non capì che quel viene dall’anima non può essere plasmato, è già di per sé sublime. «Dal 1967 al 1970», scrive Russell Gersten, «Aretha fu l’artista di colore più importante della scena pop, raggiunse vendite fenomenali per quegli anni, cantò in ogni luogo, dall’Apollo al Lincoln Center». Era lei ad impersonare la nuova cultura afroamericana che si andava affermando, con un prorompente desiderio di libertà e d’uguaglianza, ma anche una sfrenata voglia di comunicazione. Alcune sue canzoni rappresentano pagine straordinarie della storia della musica. Anima e corpo, body and soul, questo era il segreto di Aretha e dei suoi maggiori successi: “Natural Woman”, “I Say a Little Prayer”, “I Never Loved a Man (The Way I Love You) “. “Respect” è la prima canzone ante-litteram sulla liberazione delle donne. Al pari di Frank Sinatra, Aretha Franklyn è stata la più grande interprete che abbia mai calcato un palcoscenico e le sue canzoni hanno segnato in maniera indelebile la Storia.