Ho impiegato giorni prima di trovare la forza d’animo per scrivere riguardo a “Sulla mia pelle”. Non ho respirato per un’ora e quaranta minuti. Ho pianto nell’ascoltare la voce di Stefano Cucchi sovrapposta ai titoli di coda. La pelle d’oca. Mi sono sentito impotente di fronte a quell’“abbracciami papà”. Si soffre da subito, durante e dopo la fine. Non è un film. È un documento sulla malvagità e inettitudine di chi per lo Stato di diritto e per tutti noi cittadini dovrebbe essere tutore di legge e giustizia e invece si crede al di sopra di esse. Racconta la storia di un ragazzo che di errori ne ha commessi tanti ma al quale non è stata concessa la possibilità di rimediare: è Stefano Cucchi, morto all’ospedale Sandro Pertini nelle prime ore del 22 ottobre del 2009 mentre si trovava in custodia cautelare, centoquarantottesimo morto in carcere. Il totale, al termine del medesimo anno, attesta 172 decessi.
UNA BATTAGLIA PER LA VERITÀ. È trascorso quasi un decennio, ormai, ma medici e periti non hanno ancora trovato una spiegazione scientificamente condivisa sulle cause della sua morte. Il primo processo si era concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. A seguito di nuove indagini della Procura della Repubblica, il Giudice delle udienze preliminari ha rinviato a giudizio tre carabinieri per omicidio preterintenzionale e altri due per calunnia e falso in atto pubblico. La sorella Ilaria, i genitori Rita e Giovanni e l’avvocato Fabio Anselmo hanno intrapreso una lunga battaglia per la verità e nel 2017 hanno fondato una Onlus per la tutela dei diritti umani e civili del cittadino.
IL FILM. Il lungometraggio di Alessio Cremonini che racconta gli ultimi sette giorni di vita del 31enne romano, dopo essere stato presentato in anteprima e aver aperto la sezione Orizzonti della 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, esce in sala e contemporaneamente sulla piattaforma Netflix, parallelamente a una serie di visioni gratuite in giro per l’Italia: associazioni, collettivi universitari e spazi autogestiti hanno, infatti, ritenuto che i vincoli imposti dal copyright non valgono quanto la necessità di divulgare e informare il pubblico su una storia come quella raccontata. Cinema civile e di denuncia. Cinema e denuncia. Civiltà e cinema. Se una contesa vede contrapporsi gli esercenti al distributore per le sale Lucky Red e allo streaming di Netflix, la visione merita la sala e la condivisione pubblica non autorizzata, ma anche la discussione, i respiri, i pensieri. Deve essere visto. Non importa come o dove. Queste diatribe lasciano il tempo che trovano. È un dovere civico al quale tutti siamo chiamati. Ti arrestano il figlio. Ti dicono che andava tutto bene. Non ti fanno avere sue notizie e ti impediscono di vederlo per una settimana. Ti suonano alla porta di casa per farti firmare il consenso all’autopsia. Ma voi vi rendete conto? Perché io no. Un J’accuse. Devastante. Sublime. Colpisce con violenza, limitandosi a raccontare i fatti. Non amplifica, evita criminalizzazioni e santificazioni, asfissia con naturalezza. E perché – se non bastasse – suggerisce che in realtà sia andata anche peggio di così. Un film che non lascia solo pensieri, ma tocca, scuote, disturba: dilania la coscienza quasi quanto le percosse costate la vita a Stefano. Un film difficilissimo perché il caso Cucchi ha mobilitato l’opinione pubblica, perché la storia del cinema ci insegna che quando la cronaca è raccontata a poco tempo dal suo accadimento difficilmente esce un buon film per via di un eccessivo desiderio di fare sullo schermo la giustizia che non è stata fatta in tribunale. Tuttavia mai eleva la vicenda dal piano della cronaca verso una più ampia critica di sistema, o una riflessione più profonda sulla natura umana. Un corpo esanime si presenta subito allo spettatore, insensibile ai richiami dell’infermiere, ormai avvolto da un buio eterno, quel buio onnipresente in ogni scena, claustrofobico. Inizia dal noto epilogo, come a rimarcare la volontaria somministrazione a cui lo spettatore consapevolmente si sottopone. Una tenaglia, un cappio, un silenzio assordante. Strazia il cuore e si spera in tanti se lo lascino straziare. Un atto necessario, dovuto, verso tutti i poveri diavoli che non hanno voce. Mai. Il cinema dà e restituisce: il grande schermo tuttavia non basta a contenere la vergogna, figuriamoci quelli piccoli. Un esserino fragile e autodistruttivo. Vorresti proteggerlo, salvarlo, esci strozzato dall’ingiustizia, come se lo avessero ammazzato a te, non solo alla famiglia.
NON UN GIUDIZIO MA UN RACCONTO. Da questo resoconto essenziale dei fatti emerge la dote più grande che un film del genere possa avere: l’imparzialità, nei fatti e nelle parole, mutuate da testimonianze, atti processuali e oltre diecimila pagine di verbale. Non giudica ma racconta. L’assenza della magistratura, il far finta di non capire, l’omertà. La stessa che deriva da una forma mentis della borgata: non si parla, non si fa la spia quando ci sono di mezzo le guardie. Si ha paura di condividere la vergogna di essere stato pestato: Stefano si nascondeva, sottovalutando il suo stato e non ascoltando affatto il proprio corpo. La ricostruzione è fedele agli avvenimenti. Il pestaggio al centro della vicenda, e inevitabilmente del film, non viene mostrato, ma resta al di là di una porta che la cinepresa non supera mai. In questo tragico calvario, il regista lavora di sottrazione, senza accuse o proclami, e si preoccupa di evitare ogni eccesso melodrammatico oggettivamente documentabile e che testimonia la superficialità di chi si è limitato a “fare il proprio dovere”. I silenzi e i tanti campi lunghi sono sintomo di una tensione a tratti davvero straziante.
DOMANDE SENZA RISPOSTA. Come è potuto accadere che in uno Stato di diritto come il nostro, sotto la sua tutela e in un luogo come il carcere da esso governato, un ragazzo di soli trent’anni accusato di spaccio di sostanze stupefacenti, sia stato prima picchiato da uomini in divisa, poi trasferito da un ospedale all’altro della Capitale e, infine, tenuto nascosto alla sua famiglia in un’angusta stanza del Regina Coeli per un’intera settimana? Dov’era lo Stato quando accadeva tutto questo e come mai molte delle persone che lo visitarono, che lo ascoltarono e lo interrogarono ripetutamente, nonostante gli evidenti segni di violente percosse, non fecero nulla e finirono sempre col credere alla sua versione, ovviamente non veritiera, “di essere caduto dalle scale”?
Oggi siamo noi a sentire addosso l’agonia di quel ragazzo. Molte cose, come tutti, le abbiamo apprese dalle pagine dei quotidiani. Giustizia e verità restano la richiesta più urgente e pressante. Assurdo, incomprensibile, vergognoso morire mentre si è nel posto che dovrebbe essere il più sicuro. Mentre la giustizia fa il suo corso, il dramma limita i propri confini a quelli di una famiglia ma coinvolge la collettività tutta, meno fiduciosa nei confronti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Senza dimenticare, tuttavia, che c’è chi indossa orgogliosamente la divisa, muore per essa, la onora con il proprio impegno e con la propria dedizione. Chi la usa per commettere un sopruso o non ha il coraggio di denunciarne uno tradisce tutto ciò per cui esiste quella divisa. E un po’ tutti noi.
“Sulla mia pelle” è un film necessario che non volta del tutto le spalle alla sua vocazione sociale e d’informazione ma che riesce a concentrarsi più sull’uomo che sulla vicenda. Seguiamo di pari passo il declino fisico di Stefano, pur non vedendo – grazie ad una delicatezza registica – le percosse a lui inflitte. La detenzione priva della libertà, ma mai, mai, il diritto alla dignità umana, che deve essere sempre rispettata e tutelata. Mostra una verità ed è fondamentale farlo in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui si cerca di convincere le persone che il nostro benessere è legato alla negazione dei diritti degli altri. Assumersi una responsabilità, del resto, non è di moda in questo Paese.
UNA FRAGILE UMANITÀ. Alessandro Borghi restituisce corpo e voce a un essere umano fragile e fallibile. La storia di giovane uomo ma anche quella del suo corpo, affermazione più potente della pellicola. Duro nella pronuncia, nei tratti. Spento e smunto nel fisico ma docile e quasi inoffensivo. Con doloroso realismo è Stefano Cucchi, in questa sua fatica fisica e psicologica. Quasi venti i chili persi dall’attore per adempiere al dovere di raccontare una vicenda privata ma paradigmatica per ognuno di noi, la storia di uno ma anche la storia di mille. Incarna la sofferenza di Stefano e gli restituisce umanità anche attraverso il racconto degli errori che ha commesso. Borghi urla con Cucchi e noi insieme con lui. Una morsa che prende, che stringe allo stomaco. Il buio e i silenzi sono consapevolmente complici. Ci si sente impotenti di fronte alla sua omertà, annientati come quel ragazzo con due vertebre rotte. La visione piega in due dal dolore e dalla rabbia e, nel partecipare attivamente alla sofferenza mostrata, non ci si rialza per un bel po’.
UN FILM DA VEDERE. C’è chi cita De André e la sua canzone “Il Blasfemo”, e mentre risuonano i versi della sua canzone – “Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte” – resta una consapevolezza a gelare il sangue: Stefano Cucchi poteva essere chiunque di noi. Il film andrebbe proiettato in tutte le caserme, negli ospedali, nelle scuole. Nella catarsi della visione condivisa dovrebbe cominciare la rivoluzione civile contro le vessazioni e i soprusi, contro l’indifferenza e la paura. Serve umanità, al giorno d’oggi. Stefano Cucchi, ucciso dalla violenza ma atto di accusa di vivente. Poi si resta in silenzio, a luci spente. Mi sono alzato per applaudire. Grazie Alessandro, la tua non è un’interpretazione. Non hai nemmeno bisogno di recitare. Le lacrime. Sulla mia pelle, su quella di Stefano, su quella di un Paese umiliato da troppe vergogne.
E tu come mai stai così?
So caduto dalle scale.
Ma quando finirete di raccontà sta cosa delle scale?
Quando le scale finiranno de menarci.