La tradizione. Quella grande meraviglia che sempre incanta e continuamente si rinnova, quando e se si è in grado di farla rivivere in tutta la sua incommensurabile grandezza. È questa la forza – latente e insita per natura – dei grandi classici, che sopravvivono e trovano nella loro stessa universalità la spontanea perpetua puntuale affermazione. Ben si attestano – la cronaca e l’esperienza lo insegnano – innovative ed eccezionali rivisitazioni di taluni capolavori, sempre ammesso e non concesso che la deroga alla convenzione sia foriera e presenti in nuce un qualche sintomo di originalità, non già fine a se stessa bensì carica di una propria funzionalità e coerenza. Ma – come l’istinto dell’umana specie e le attitudini professionali di qualsivoglia artista quasi inconsapevolmente suggeriscono – è prassi mettere le mani e cimentarsi in ambiti e con opere che l’ingegno altrui ha brillantemente partorito, nella costante sfrenata logorante ricerca e tentativo di voler per forza e innaturalmente aggiunger un quid novi a meccanismi già perfetti, già affermati, già celebrati. Tra l’incessante timore del “già visto” e l’ardente desiderio di ergere ad applaudito successo il frutto del proprio – a volte presuntuoso – lavorio artistico, si assiste sovente a riletture che con autoreferenza e convinta immodestia esaltano la presunta dirompente novità del caso, quasi come se questa debba essere carattere precipuo e indispensabile dell’ingrato compito che spetta a chi si cimenta nella già ardua impresa di proporre tutto ciò che è già noto ai più. Ma dove sta scritto che, per far rivivere un capolavoro, l’innovazione sia condicio sine qua non? Chi l’ha detto che, per conquistare il favore di un pubblico esigente, debba essere forzatamente confezionato un prodotto che sorrida a spettacolarizzazioni o a singolari addizioni?
UN GRANDE CLASSICO. È più o meno questo il caso di quanto andato in scena al Teatro Massimo Bellini di Catania, dove fa ritorno a meno di un lustro uno tra i classici più amati: La Bella Addormentata musicata da Pëtr Il’ič Čajkovskij nel biennio 1888-1889 su commissione del direttore dei Teatri imperiali di San Pietroburgo, Ivan Vsevoložskij. Un titolo che avrebbe rivoluzionato la storia del balletto narrativo fin de siècle con l’astro di Marius Petipa, già grande protagonista delle scene teatrali francesi, dove si era affermato come interprete privilegiato di due grandi classici, Giselle e La Fille mal gardée, salvo poi nel 1862 cimentarsi con La Fille du Pharaon, basata su un racconto di Théophile Gautier. Ma – è cosa nota – anche quando maître de ballet della compagnia non è il coreografo marsigliese, oggigiorno la categoria manifesta la pressante istanza di mostrare (o dimostrare) qualcosa in più. Spesso insensata, incomprensibile, irragionevole. La limitatezza dei mezzi di cui disponiamo non ci permette, infatti, di cogliere l’idea di fondo, il file rouge della singolarissima – e opinabile – interpretazione “filo-arcobaleno” firmata da Matteo Levaggi. Se Petipa concepiva un vero inno alla bellezza femminile e all’eterna giovinezza, ad andare in scena nell’ente lirico etneo sono ben altro tipo d’istanze. E, sinceramente, a quasi un triennio dalla tanto attesa legge Cirinnà, si stenta a credere possa risultare funzionale imporre su imponenti scranni – inizialmente lasciati vuoti – due uomini ad impersonare e sostituire il paradigma di re e regina per rappresentare un sentimento universale. Non sconvolge, non rivendica, non serve. Semplicemente stona. Sono poi molti i personaggi en travesti, che nella loro immotivata ostentazione certo comunque tutto fanno tranne che scandalizzare: non soltanto, come da tradizione, la Fata Carabosse (Vincenzo Carpino), ma anche quella dei Lillà (Andrea Mocciardini). Una moderna attualizzazione che di certo finisce per perdere di vista il riferimento letterario de La belle au bois dormant di Charles Perrault, per la prima volta pubblicata nel 1697 nei Contes de ma mère l’Oye, antologia che raccoglie undici titoli entrati a far parte della letteratura per bambini. Lo spettatore medio, anche il meno tradizionalista, è disorientato: se l’intento era quello di ingenerare confusione circa i ruoli e l’evoluzione della vicenda, il tentativo è certamente andato a buon fine.
L’INUTILE OSTENTAZIONE DEL GAY POWER. C’è chi, tra il pubblico, ha colto nelle grandi girandole di lecca lecca un velatissimo messaggio subliminale e chi invece non ha ancora compreso come questo superfluo contesto gay friendly riesca a conciliarsi con l’emancipazione della principessa Aurora, rimasta inspiegabilmente orfana e che in compagnia di un paggio (Alessandro Cascioli) è una libera e intraprendente ragazza contemporanea che vuol decidere della propria vita, senza bisogno di una Fata. E poi, improvvisamente e incomprensibilmente, la principessa si desta in piena autonomia dal proprio sonno, mentre al bacio del principe viene relegata funzione esclusivamente ornamentale. Sarà che di questi tempi non si usa più. L’amore non avrà confini ma le sottotrame finiscono inevitabilmente per distrarre, mentre coerenza drammaturgica e unità teatrale sono già clamorosamente sacrificate. La sensazione è che la narrazione della storia se da un lato procede in modo più o meno fluido, in modo direttamente proporzionale l’azione scenica risulta poco chiara e leggibile. Il ruolo significativo e attivo affidato al pur valido Corpo di ballo del Teatro Massimo di Palermo – ben più di un semplice elemento decorativo accessorio lasciato sullo sfondo – non riesce infatti ad apportare la giusta dinamica al già complesso intervento. Tra allegri e divertissement, il Corpo di ballo finisce per ingombrare anche esteticamente: le vaporosissime nuvole color pesca e zucchero filato indossate dalle danzatrici – un’allusione alle rose, a detta di chi se ne intende – sembravano, come ha sottolineato durante l’intervallo un’elegantissima e sofisticata abbonata, scimmiottare la Haute Couture di Dior. Le stesse però si stagliavano nette contro la versione dark transgender offerta dalla Carabosse di Carpino, somigliante a Dart Fener alla prima sua sortita, fascinatore necessario e ineludibile. Ma l’ostentazione del gay power – quasi preannunciata da un araldo che imbraccia la solita ingombrante caramella – ritorna ad affermarsi con la sortita finale del Gatto con gli stivali durante la gioiosa parata delle nozze tra il principe Désiré e Aurora: accompagnato dall’Uccello Azzurro a carica meccanica e dalla principessa Florina, da una Cenerentola munita di borsa shopper trasparente e dal Principe Fortuné intento a raccogliere scarpine, da una Cappuccetto rosso versione rapper e da un lupo dotato di chiodo (gli avranno rubato l’Harley Davidson), il gatto è solo accennato all’appendice di un boa bianco piumato (che di per sé solo è già un manifesto) sventolato a destra e a manca con spasmodica veemenza.ù
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IL BRUSCO RISVEGLIO. Pressoché irriconoscibile, nel complesso, il soggetto originale e la sua narrazione: a mancare, tuttavia, è proprio la permeante aura fiabesca e lo smalto onirico che per generazioni ha alimentato la fantasia e l’immaginazione dei bambini presi per mano dal racconto lineare, semplice e delicato di Perrault. La cornice, sotto il punto di vista squisitamente estetico, non affascina l’occhio: se non predominano toni e colori pastello, è assente anche ogni riferimento alla gabbia dorata dei teatri imperiali così come non vi è cenno al barocco francese e al binomio cromatico bianco-oro che aveva ispirato il tributo al balletto di corte del XVII secolo. Non son serviti di certo, in questo caso, quattro scenografi per illustrare le vicende: Antonino Di Miceli si limita a fondali stilizzati e non particolarmente ricercati, due troni e una culla vuota in un proscenio spoglio ed essenziale. Un allestimento modesto e scarno – moderno lo definirebbe qualcuno – che si guarda bene dallo strizzare l’occhio a lussuosi palazzi reali o boschi cartonati in cui la principessa e la sua corte si lasciano per oltre un secolo abbracciare da Morfeo, dopo che la giovane donna si è punta con un mazzo di rose,+ in un universo in cui le fate sono appunto boccioli di fiori. L’unico elemento, per così dire spettacolare, è la pioggia di tremila rose bianche, a conclusione del celebre e attesissimo Adagio, evidente citazione – decisamente meno riuscita – del film premio Oscar American Beauty di Sam Mendes. Le suggestioni cinematografiche risultano comunque superflue e a poco giovano le luci di Fabio Sajiz e i costumi degli allievi del Master di Costume dell’Accademia Costume & Moda di Roma, coordinati da Andrea Viotti. Dubitiamo che, se alla recita del teatro etneo avesse assistito lo zar Alessandro III, avrebbe rinnovato quel “molto grazioso” riservato al giudizio del balletto che debuttava al Mariinskij di San Pietroburgo il 15 gennaio del 1890. La nuova, inedita apertura al mondo delle arti performative moderne e contemporanee è fine a se stessa, priva di sviluppi coerenti a differenza delle rivisitazioni di Neumeier per l’Hamburg Ballett, di quella dark di Roland Petit nel 1990 o della più recente ripresa filologica di Guillaume Bart per il Teatro dell’Opera di Roma.
UNA SINERGIA RINNOVATA. Dopo l’apprezzata Traviata del marzo scorso, con la regia di Mario Pontiggia, si rinnova quindi la sinergia tra i due enti lirici siciliani nel tentativo di fare rete e far circuitare le produzioni e adesso anche il Corpo di ballo, uno dei quattro rimasti attivi in Italia dopo la chiusura di molte importanti e storiche compagnie. Una risorsa che, nel caso di specie, poteva sicuramente essere sfruttava meglio stante la buona tecnica ed espressività soprattutto della componente femminile, protagonista a tratti di una prova più valida di quella dei solisti. Levaggi trascura la ricerca e sceglie di prescindere dalla tradizione, di non preservarla. Ne risente la struttura di Petipa e a giovare dei contributi drammaturgici non è certo lo spessore psicologico dei personaggi. E così il repertorio ballettistico tardo-romantico, in cui la dialettica tra bene e male viene risolta dalla forza invincibile dell’amore, rivive alla buona nella pseudo-reggia: ma si stenta a cogliere i festeggiamenti per il battesimo della principessina Aurora, l’anatema scagliato sulla piccola da Carabosse, l’intervento salvifico della Fata dei Lillà che preserva il castello avvolgendolo in un bosco incantato. I sogni a volte si avverano, altre si danzano e si raccontano. Ma bene avrebbe fatto il coreografo a concentrarsi maggiormente sulla bellezza dei piccoli passi, valorizzando pulizia tecnica e intensità gestuale e conferendo al balletto un taglio umano oggi spesso lasciato al caso. Non avrebbe guastato un pizzico di sentimentalismo, capace di conciliare vicende assai diverse tra loro, accompagnate da una musica lineare, di pochi e deliziosi motivi ricorrenti in cui si alternano marce, passi d’insieme, divertissement, passi a due, a tre, a quattro e d’assolo, nonché danze di fila. Romina Leone danza il ruolo di Aurora con la giusta grazia nelle variazioni ma con fragilità già nel romantico Adagio della Rosa, poi nel drammatico momento in cui cade come morta. Nella rarefatta radura del secondo atto sembra non esservi traccia di battute di caccia, dame e cavalieri, così come non è restituita a pieno la visione procurata al giovane principe di Michele Morelli dalla Fata dei Lillà in tutta una serie di assoli privi del virtuosismo e dell’atletismo necessario ma ben connotati da un’appassionata sfumatura fanciullesca.
La singolare ricerca linguistica ed elaborazione stilistica non si comprende nemmeno nel momento in cui il purissimo sentimento dovrebbe essere celebrato con un maestoso grand pas de deux – assente – nel quadro finale, non esattamente un trionfo lussuoso di eleganza e divertimento. Con la negazione del codice classico e la contemporaneità espressiva degli ensembles, vengono meno anche le più armoniose, morbide e lineari dinamiche, unitamente a quella pennellata delicata che, tra linee sinuose di movimenti perfetti, con lirismo trasporta lo spettatore nell’accogliente mondo dei fiabeschi ricordi. Non basta una scenografia atemporale e un voluto comprimariato a restituire una visione olistica della mise en scène. Un particolare plauso merita, infine, la brillante prova dell’Orchestra del Bellini, diretta dal maestro russo Mikhail Agrest, già allievo di Ilya Musin e per oltre dieci anni di stanza al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Archiviate le eroine romantiche irrangiugibili e longilinee, silfidi, villi e ondine, è un peccato che con la consueta immodestia simili riletture e adattamenti scolastici non restituiscano il fascino e la radiosa bellezza del mondo dell’ultimo Petipa. Gioverebbe forse qualche fata a portare in dono ai coreografi contemporanei una ventata di autentiche, sensate, coerenti novità.