La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita. […] Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità.
Così, nel 1908, argomentava Luigi Pirandello nel saggio su “L’umorismo” quando, già sul finire dell’Ottocento, il teatro aveva assunto una spiccata funzione sociale: luogo di aggregazione della media e alta borghesia, in cui la società nazionale si riconosceva e fissava i parametri della propria identità nonché sede di appassionanti dibattiti culturali, che dal teatro passavano ai giornali e alle riviste (dalla questione della famiglia e del ruolo della donna). In questo mercato dell’immaginario – che gioca sulla possibilità d’identificazioni collettive e d’evasione di massa – si attesta “Pensaci, Giacomino!”, commedia in tre atti, tratta dalla novella omonima apparsa sulle colonne del Corriere della Sera del 23 febbraio 1910, ora confluita nella raccolta “La giara” (1927) di “Novelle per un anno”. Trasposta nel 1916 in vernacolo per soddisfare le richieste di Angelo Musco e successivamente tradotta in lingua, il titolo fa ritorno al Teatro Verga di Catania, in prima nazionale, dopo trentacinque anni, con una nuova produzione del Teatro Stabile e di Compagnia Enfi Teatro, con Leo Gullotta, istrionico attore nato al Fortino, al debutto in un nuovo ruolo pirandelliano che aggiunge alla sua straordinaria carrellata di protagonisti. L’allestimento – poi in tournée tra Roma, Bologna, Gorizia, Lecce, Messina, Pescara – vede accorpato in un’ora e mezza di atto unico il testo moderno e attualissimo dal genio dello scrittore agrigentino, premio Nobel per la Letteratura nel 1934 “per il suo coraggio e l’ingegnosa ripresentazione dell’arte drammatica e teatrale”.
UN ALLESTIMENTO ESPRESSIONISTA. La fedele lettura drammaturgica di Fabio Grossi, senza la necessità di riscritture, pospone lecitamente l’azione negli anni ’50, in piena ricostruzione, agli inizi del boom industriale, in un’epoca di libertà ritrovata. Nell’abbandonare fogge d’epoca viene espunto l’anacronistico “Voi” reverenziale mentre con chiarezza e lucidità il testo è sciolto intersecando l’eco della versione siciliana, quasi a dare carnalità ad un gioco intellettuale che vuole scardinare il perbenismo borghese. Immediato è l’incontro con le sagome dipinte di grotteschi “giganti”, che dominano il velatino prima dello spegnimento delle luci in sala e incombono onnipresenti sulla scena poi, a rappresentare il commento perbenista dei benpensanti, la calunnia sociale e l’ottusa ristrettezza di vedute dei baciapile. Il sipario si apre, con il sottofondo sonoro del pubblico mormorio, su una scenografia essenziale ma elegante e incisiva presentandoci il ginnasio del settantanne Agostino Toti, disilluso da trentaquattro anni di insegnamento ma non inerte, anticonformista e risoluto paladino di valori civili, che racconta al direttore della scuola come, per vendicarsi di uno Stato patrigno che l’ha sottopagato rendendogli a suo tempo impossibile la formazione di una famiglia, abbia deciso di impalmare in extremis la giovanissima e disperata Lillina (Federica Bern), figlia del bidello, al solo fine di salvarla dal destino di ragazza madre ma soprattutto di beneficarla di una famiglia onorata nonché – dopo la propria morte e presumibilmente a lungo – del diritto alla pensione cui s’aggiunge una cospicua eredità di cui il docente non vuole godere, ponendola così al riparo dalle difficoltà dell’esistenza. E ben venga la beffa allo Stato, che per tanti anni dovrà alla giovane vedova tutti quei quattrini che l’insegnante non ha ricevuto in vita. Intenso, ben ritmato il dialogo iniziale fra il professore e il direttore della scuola (Liborio Natali) in cui il protagonista mette in campo la sua filosofia fra ciò che si è e le maschere che la convivenza sociale impone di indossare. Evidente è l’omaggio ai neoplasticisti, con una caratterizzazione pittorica di taglio espressionista che è riflesso del periodo pirandelliano in Germania, rendendo dall’interno la vita dei personaggi, la loro visione del mondo deformata e onirica, i loro incubi e le loro allucinazioni. La scena mobile di Angela Gallaro è perfettamente funzionale a un’azione che scorre con tempi rapidi e serrati, in un’ambientazione naturale e di gran gusto che descrive mirabilmente le tre situazioni in cui si dipana la vicenda. Il disegno di luci – ora calde ora fredde – curato da Umile Vainieri, risalta i contrasti, le pennellate e tutte le virtù – sceniche e plastiche – dell’allestimento, unitamente alla coerenza e all’ottima fattura dei costumi. Le musiche di Germano Mazzocchetti, con i brani cantati da Claudia Portale, non sono semplice commento di una tragedia civile ma voce critica della regia. E mentre i tre atti corrono svelti su un solo binario, l’esteriorità dei personaggi permette – come scriveva Gramsci – di “cogliere della vita la smorfia più che il sorriso, il ridicolo più che il comico”.
LEO GULLOTTA PORTA COSÌ IN SCENA la condizione dell’anziano come la intendiamo oggi e non, più banalmente, la vecchiaia. Fa così scandalo il convenzionale matrimonio bianco contratto dall’insegnante con una ventenne che porta in grembo il figlio di Giacomino Delisi, suo ex alunno, incapace di assumersi le proprie responsabilità e di vincere le resistenze della famiglia. Lillina vivrà con lui come una figlia e, pur mantenendo il ruolo giuridico e formale di capofamiglia, Toti le concederà le più ampie liberta: è singolare come l’illuminata ribellione contro le convenzioni si traduca sostanzialmente nel ripristino ordinato delle regole; ma questa esteriore verniciatura d’onorabilità ha un evidente significato umoristico, per le contraddittorie conseguenze che suscita. E il novello sposo ha pure procurato lavoro in banca al ragazzo. Paradossalmente Toti riesce a imporre un ménage a trois, ma chi non sopporta la situazione è proprio Giacomino, padre biologico e sostanziale vero marito, che decide di abbandonare Lillina e il bambino per fidanzarsi e sciogliersi dalla situazione in cui è impigliato. Un’interpretazione intensa e coinvolgente quella di Leo Gullotta, superbo protagonista, che affronta con estremo garbo i preconcetti di una bigotta società borghese, dando voce a un padre non solo per la giovane sposa ma anche per l’innamorato di questa e il loro bambino. Strenuo ed elegante difensore delle relazioni familiari, offre l’opportunità di riflettere sulla graffiante valenza della contemporaneità di un testo in cui viene snocciolata la tragedia umana e sociale della condizione femminile, della solitudine, della scuola e degli insegnanti, dell’eterna invadenza clericale, dell’arrivismo dei burocrati, della chiacchiera sociale, dell’ipocrisia, dell’ignoranza che genera violenza. L’uomo depauperato fino al riscatto d’orgoglio – pronto ad aiutare ma incompreso da una società malata, ambigua, evoluta e involuta al contempo – è restituito da un Gullotta capace di reggere la tensione di un intero allestimento, in cui ogni intonazione, ogni gesto sono giocati con assoluta precisione unitamente a una presenza scenica intensa atta ad affrontare coraggiosamente il conflitto tra l’autentico senso d’umanità e le regole di una società mediocre, fatta di uomini tutti uguali, che egli trasgredisce accettando di risultare a tutti stravagante e senza scomporsi dalla corale censura che l’intero paese gli infligge.
UNA SAPIENTE LETTURA DRAMMATURGICA. Comico, questo Pirandello, e iconoclasta, già banco di prova di attori del calibro di Salvo Randone, Sergio Tofano e Turi Ferro. Nell’attenta regia di Grossi emergono i caratteri fondamentali della ricerca dell’avanguardia di primo Novecento: la crisi delle ideologie e il conseguente relativismo, il gusto per il paradosso, la tendenza alla scomposizione e alla deformazione grottesca ed epressionistica, la scelta della dissonanza, dell’ironia, dell’umorismo e dell’allegoria. Se Pirandello muove dalla stessa crisi filosofica ed epistemologica da cui nasce il Decadentismo ma per darle risposte totalmente diverse, giungendo così a strutture artistiche aperte e inconcluse che si pongono in antitesi radicale con le gerarchie e i valori dell’arte classica, romantica e decadente, a essere perfettamente restituita allo spettatore è la crisi intellettuale di una generazione affetta da inanismo, egoismo e spossatezza morale. Si oscilla tra una visione ontologica dell’umorismo – considerato possibilità perenne dell’uomo – e una sua visione storica, derivante da particolari condizioni che hanno messo in crisi le antiche certezze: espediente è quel limite ontologico dell’uomo che da sempre vive in un mondo privo di senso e che, tuttavia, si crea una serie di autoinganni e di illusioni attraverso i quali cerca di dare significato all’esistenza. In questo senso l’umorismo sarebbe l’eterna tendenza a svelare tale contraddizione. Non si propongono tanto valori ideali o paladini che ne siano portatori, quanto un atteggiamento critico e personaggi problematici e dunque inetti all’azione pratica. L’umorismo non si limita a risolvere positivamente le questioni che affliggono l’uomo, ma mette in risalto le contraddizioni e le miserie della vita, irridendo e compatendo nello stesso tempo. Così Giacomino sembra abbandonare l’adeguamento passivo alle forme, diventa maschera nuda e vive consapevolmente la scissione tra forma e vita grazie a un effettivo sentimento del contrario che nasce dalla riflessione; e al riso subentra il sentimento amaro della pietà. Grossi evidenzia il contrasto tra forma e vita, tra personaggio e persona; convenzioni, riti e istituzioni sono autoinganni individuali, che rafforzano le illusioni ingenerate dalla morale, dalle leggi civili, dalla vita associata. La forma blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali e cristallizza la vita mentre il soggetto così costretto sveste i panni della persona integra, coerente e compatta, fondata sulla corrispondenza armonica fra desideri e realizzazione, passione e ragione, riducendosi a maschera che recita la parte che la società esige da lui. Espressione coerente del pensiero e della cultura del relativismo filosofico, la poetica pirandelliana finisce per mettere in crisi tanto l’oggettività quanto la soggettività e il concetto di verità viene posto radicalmente in questione. In “Pensaci, Giacomino!” c’è spazio per la discordanza, la contraddizione, l’incongruente e il dissonante. E il duo Grossi-Gullotta lo fa con ammirevole assenza di retorica. La vita non conclude – non ha ordine, un senso, inizio o fine – e anche la struttura resta aperta in una realtà irta di contraddizione, come in quella enorme “pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai” che è la vita. Agostino Toti, per mezzo della ragione, non si riconosce più nel meccanismo naturale né in quello sociale e persino il Giacomino di Marco Guglielmi perviene a un’autonomia del personaggio, carattere vivo oggettivamente, maschera definita da una sua vita propria e da pochi tratti essenziali. Con tale identificazione del carattere nella maschera, il personaggio che la impersona diventa autonomo e indipendente, esaltando l’interprete. È la costruzione del personaggio in un carattere-maschera a determinare poi l’intreccio, e non viceversa. Questo è ciò che, più di ogni cosa, si apprezza.
UN PRODOTTO INTELLIGENTE, ben fatto, che rende giustizia non solo al teatro, ma anche al pensiero del drammaturgo agrigentino dando corpo e tensione alla parola dell’autore. Un cast ben assemblato produce nell’ascoltatore un piacevole senso di partecipazione al racconto, ora esaltando ora rallentando il ritmo dell’eloquio. Il Toti di Gullotta, con la sua lucida e cinica bontà, è una creazione scenica meritoria per sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa. In quella che appare come una battaglia contro le ottuse consuetudini del pregiudizio borghese, il professore è indifferente al vociferare della “trista gente” del paese, rappresentando lo scacco di un uomo non più in sintonia con la società che aiuta il suo sostituto nel compito maritale, lo ama come un figlio e non si cura dei rimbrotti del direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è oggetto mentre perora la causa della propria moglie. Fatto di apparente genuinità popolaresca, il testo si rivela in tutta la sua sofisticata denuncia. La compagnia presenta i tratti umoristici dell’apologo, che si allargano poi a quelli ombrosi, sghembi, grotteschi, ironici, dissacranti, in realtà fustigatori, capaci di trasmettere a tutti il dissidio interiore, il senso di smarrimento del singolo, i paradossi esistenziali di quella «profonda umanità» che celebra la vittoria dei sentimenti autentici. Al Verga si veicola in una forma semplice, chiara e genuina il fondamentale “sentimento del contrario” teorizzato da Pirandello. Dal punto di vista dei paesani e di Giacomino, Agostino Toti è incarnazione del diverso; per lo spettatore è l’umoristico perché scorge, dietro la maschera sociale, un sottofondo drammatico. L’amore disinteressato cela la volontà di controllo ossessivo e l’insopprimibile egocentrismo di una personalità perciò come frantumata, caratterizzata da valori opposti e complementari, pienamente novecentesca. Il finale è problematico e pieno di amara speranza, perché da una parte il professore appare prodigo fino a invadere la libertà altrui e si rivela del tutto sordo alle conseguenze delle sue affermazioni, dall’altra Giacomino va contro il sentimento paterno e contro ogni logica dell’utile, ma deve affrontare un dilemma tragicomico, tanto che l’avvertimento intimatogli in chiusura non può che apparire infine sensato. La “risoluzione eroica” di uscire di casa con il bimbo nella carrozzina, diretto a casa di Giacomino, si rivela una violenta requisitoria contro le pretestuose ragioni un viscido padre Landolina (un brillante Sergio Mascherpa), liquidato come un miscredente e succube di Rosaria (una brava Valentina Gristina), arcigna e devota sorella di Giacomino. Contro l’affettato prelato, l’insegnante adotta un linguaggio e un tono biblico, quasi avesse indossato le vesti sacerdotali per indicare da che parte è la giustizia. S’inseriscono con indubbia correttezza i coniugi Cinquemani (Valerio Santi e Rita Abela), anziani bidelli del ginnasio, misurati e ipocriti opportunisti, che ben presto protestano animosamente per l’ambigua situazione in cui vive la figlia che si ritrova sulla bocca di tutti. Si ritaglia apprezzamenti anche Gaia Lo Vecchio, nel duplice ruolo di Rosa (serva in casa Toti) e Filomena (serva in casa Delisi), antitetici nella rispettiva iperattività e irrequietezza della prima contro l’estrema flemma e apatia della seconda. La costruzione pirandelliana poggia opportunamente su comportamenti ribaltati, illumina e mette in discussione l’equilibrio precario dei ruoli giocati tra immagine e bisogni reali, doveri e istinti con i quali la comunità è chiamata a confrontarsi, votata com’è a sostenere e promuovere la superficialità di un ragionamento gretto e meschino. Viene descritta una quotidianità che, tra paradossi esistenziali dell’individuo, sanzioni morali e umorismo, indossa una maschera diversa in base all’occasione da affrontare. Mentre Leo Gullotta si fa burattinaio interno di una ‘tirannia’ degli affetti che richiama Giacomino alla sua responsabilità di padre, in scena nascono le crisi identitarie, i doppi ruoli che danno luogo al conflitto con il bisogno di una vita di facciata, atta ad assicurare il quieto vivere. Mantenendo dietro l’atmosfera paradossale il sottofondo drammatico, palese nella drammaturgia e nella caratterizzazione di ogni personaggio, la rappresentazione della realtà non è più concepibile in senso deterministico. Il pubblico etneo della prima nazionale tributa grandi e generosi applausi a un allestimento capace di dar voce, con chiarezza, eleganza e senza eccessi didascalici, a emozioni capaci di scuotere anche le pieghe più recondite dell’animo umano con l’obiettivo di far riflettere sulle tante miserie del nostro universo familiare e sociale.