«Iniziare a guardare una serie Tv che potrebbe durare anni non è una decisione da prendere alla leggera». La battuta è di Sheldon Cooper, uno dei quattro nerd della sit-com “The Big Bang Theory”. Jim Parsons – che lo interpreta – guadagna un milione di dollari a episodio, così come i colleghi Johnny Galecki e Kaley Cuoco. E la considerazione del celebre personaggio risulta assolutamente veritiera. Ma, al di là della loro durata, le serie tv sono ormai quasi sempre prodotti impeccabili, che colgono lo spettatore dinanzi a una novità mediale e che – complici i social network – hanno trasformato gli stessi in proseliti. Non è tanto una questione di specifiche scelte estetiche; le caratteristiche distintive delle serie tv sono quelle strutturali: la costitutiva serialità, il tempo indeterminato di fruizione, la bassa definizione del punto di vista in termini di puntualità e arbitrarietà del testo audiovisivo. Lo sbarco in Italia di Netflix ha, quindi, naturalmente rilanciato in modo quanto mai prepotente il dibattito sulla serialità e sul suo rapporto con il cinema, secondo alcuni destinato a essere superato e definitivamente soppiantato. E ciò avviene con trame basate su temi attuali che abbracciano cronaca ed economia su scala mondiale, mentre risulta sempre più difficile portare il pubblico in sala, al di là dei cosiddetti film-evento.
DINAMICHE INTRINSECHE. Sia chiaro, la gente al cinema va ancora, almeno per cercare un’alternativa, una forma di svago, ma lo fa in modo diametralmente differente rispetto a un tempo: per vedere il film dell’anno – sull’insegnamento di James Cameron – o per seguire i diversi capitoli delle varie saghe Star Wars, maghetti e affini o quelli degli universi espansi di casa Marvel e DC Comics. L’intrattenimento odierno, del resto, è sempre più orientato verso un tipo di franchising piuttosto rodato e collaudato: l’importante è non correre troppi rischi e puntare su produzioni ad alto budget, solo quando si è convinti oltre ogni ragionevole dubbio del prodotto finale e quindi di un ritorno economico più che probabile. Per questo motivo spesso si punta su storie e personaggi già conosciuti e collaudati, tratti da fortunate serie di libri o best seller che spingono facilmente il pubblico verso le sale. Si pensi ancora oggi a Harry Potter, Batman, Spiderman e numerosi altri compagni che nel corso degli ultimi anni sono tornati spesso al cinema, facendo le fortune dei produttori e sbancando ripetute volte al box-office. Il segreto per ottenere successo con il cinema – così come in qualsiasi altro ambito che riguarda l’intrattenimento – sta nel richiamare il pubblico con una storia, un personaggio molto conosciuto e popolare. La serialità televisiva ha delle regole quasi meccaniche: si pensi alle serie tv americane, targate Hbo/Netflix che tanto appassionano il pubblico, esaltano gli addetti ai lavori e portano persino i critici a scrivere che “la Tv, per anni derisa come una scatola idiota, è creativamente maturata e sta mettendo il cinema al tappeto della cultura popolare”. E se storicamente il medium televisivo è sempre stato considerato inferiore rispetto al cinema o vacua forma d’intrattenimento per le masse ben distante dalla più elevata forma d’arte, adesso anche i volti del grande schermo hanno iniziato a fare a gara per partecipare a progetti televisivi di pregio. Se una volta le star di Hollywood si limitavano a intervenire in qualità di guest stars (Charlotte Rampling in “Dexter”) e in fugaci cammei (Brad Pitt o Julia Roberts in “Friends”) negli ultimi anni si propongono come protagonisti: partecipare a una serie costituisce un impegno gravoso in termini di tempo, significa rinunciare automaticamente ad altri progetti, ma la crescente qualità della scrittura porta a qualche ripensamento. Glenn Close è tra le “pioniere”: nel 2005 partecipa a un’intera stagione del cop drama “The Shield”. L’anno successivo è la protagonista del legal “Damages” e vince un Emmy. I big cambiano idea: una serie offre la possibilità di sviluppare personaggi che il cinema fatica a proporre e si traduce spontaneamente in Emmy e Golden Globe. L’esempio più eclatante è forse quello di Kevin Spacey (due volte premio Oscar per “I soliti sospetti” e per “American Beauty”) e del suo Frank Underwood in “House of Cards”. Ma oltre alla “coppia presidenziale” costituita con Robin Wright, si potrebbe citare anche Matthew McConaughey, premio Oscar nel 2013 per la straordinaria prova in “Dallas Buyers Club” e l’anno seguente protagonista in “True Detective”. E ancora Woody Harrelson, Colin Farrell e Vince Vaughn, o Winona Ryder (“Stranger things”), Jessica Lange e Kathy Bates (“American horror story”), Susan Sarandon (“The Feud – Bette and Joan”) o Maggie Smith (“Downton Abbey”). E più che partecipare al dibattito pro o contro la serialità, è interessante invece coglierne le proprietà intrinseche.
LA DIGNITÀ RISCATTATA. Il fenomeno sembra assumere oggi addirittura dignità artistica. Considerate fino a qualche anno fa prodotti di serie B, spesso girate e scritte con poca cura, erano tuttavia trampolino di lancio di giovani attori o l’ultima spiaggia di star ormai bollite. Anche il telespettatore medio condivideva questo atteggiamento: chi si appassionava ad un prodotto televisivo spesso lo faceva di nascosto, negando anche l’evidenza qualora scoperto. Oggi l’asticella si è alzata notevolmente e, se fino a dieci anni fa, lo spettatore tipo s’imbatteva casualmente durante lo zapping su di una serie, a oggi l’identikit è molto diverso: lo spettatore è più preparato e, soprattutto, è più esigente. Da quel giorno la sua vita non sarà più la stessa, non si accontenterà di una trama banale e ne vorrà sempre di più.
Secondo parte della critica, “Lost” deve essere considerato come un vero e proprio spartiacque: l’isola, i suoi naufraghi e una riconosciuta qualità di scrittura hanno cambiato per sempre il mondo della serialità televisiva. Il primo effetto di questa produzione è stato quello di portare gli autori dei telefilm agli onori della cronaca. Lo spettatore è rimasto fedele, cercando di seguire passo passo le evoluzioni della trama. Spesso il filo logico si è perso, ma la tensione è rimasta alle stelle. E così J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber diventano oggi nomi conosciuti non solo dagli addetti ai lavori. Le stesse sit-com erano spesso prodotti scadenti: la loro comicità sovente scadeva nella banalità se non nella volgarità. Ma come dimenticare “Friends”, “Seinfeld”, “Frasier” o “Will e Grace”, produzioni divertenti, intelligenti e a tratti cult. La musica cambia a partire dal 2005, anno in cui viene trasmessa la prima puntata di “How I Met Your Mother”. A seguire “Community”, “The Office”, “Parks and Recreation”, “New Girl” hanno proposto una scrittura originale, brillante, non scontata e ricca di riferimenti meta-genere.
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UN FENOMENO DILAGANTE. Le serie tv sono ad ogni modo il fenomeno del momento, tutti le guardano, tutti ne parlano, alcuni ne decretano già la morte, mentre molti sostengono abbiano ancora tanto da dare e siano il tipo di narrazione attualmente più potente. Pilastro fondamentale della serialità – che la rende irresistibilmente attraente – è la curiosità del “dopo”. Mentre un lungometraggio sembra essere, per sua natura, destinato a concludersi in modo apparentemente definitivo e il sex appeal del seriale viene sfruttato solo da un ipotetico eventuale sequel, nella serie tv è esso stesso parte costitutiva e integrante del prodotto. È centrale la disponibilità di un flusso narrativo aperto al posto di un resoconto chiuso. Il tempo indeterminato del racconto, che è un’altra caratteristica strutturale della serie, promette allo spettatore una visione completa sull’intera vicenda trattata unitamente alla possibilità di diluire la trama in un arco temporale molto più ampio. Come in più di un’occasione è stato rilevato, “se traessero una serie tv dal Signore degli Anelli, potrebbe durare diciotto stagioni da episodi di un’ora e mezza ciascuno”. Non a caso appositi riscontri hanno rilevato che sono soprattutto gli amanti della lettura ad appassionarsi alle nuove serie tv, mentre chi non legge preferisce la televisione generalista. Il differente tempo di fruizione prepara e giustifica modi di raccontare assai differenti. Offrono così tutto il tempo per metabolizzare il testo del racconto e farsi una propria idea sui significati più o meno espliciti che veicola, persino quando il ritmo è incalzante. Il cinema, al contrario, pretende un’immediata capacità di analisi e di sintetizzazione di quanto e di come lo riporta, pena l’incomprensione o il travisamento, anche quando il ritmo è blando.
Il segreto della serialità risiede nell’articolazione narrativa, cioè in tutto ciò che riguarda temi e contenuti: dalla dimensione temporale alla modalità di intreccio delle trame, dalla funzione e dalla tipologia dei personaggi alle tematiche principali sulle quali si articola l’azione e che ne costruiscono l’universo narrativo. Sicuramente il tempo è un fattore chiave del successo delle serie. Aiuta gli spettatori ad affezionarsi al personaggio e a entrare nella storia; vediamo i personaggi invecchiare nel tempo proprio mentre cresciamo e invecchiamo pure noi. Con questa particolare comunanza con il pubblico, messo davanti a loro non per sole due ore ma per 5-6 stagioni e non in storie autoconclusive che li fanno restare uguali a se stessi, e con archi narrativi molto compositi, concede alla serialità – a differenza di molto cinema di intrattenimento – la possibilità di prendersi tutto il tempo per presentare, caratterizzare e far evolvere i protagonisti (anche i comprimari), fungendo da eccezionale laboratorio di sceneggiatura e recitazione. Sia per la necessità di andare oltre gli stereotipi iniziali (il misantropo, la femme fatale, il novellino, il serial killer, il nerd), sia per l’avvicendamento di scrittori diversi man mano che la serie avanza, assistiamo alla costruzione dal vivo di figure sfaccettate e complesse, in continua trasformazione. Si realizza con sorprendente efficacia anche una vecchia regola della buona narrazione: ci si ricorda che esistono persone buone a cui capita di fare azioni esecrabili e persone cattive capaci delle azioni più nobili, che non restiamo mai uguali a noi stessi, anche se ci piace pensarlo. E nonostante, certo, il rischio sempre presente di snaturare troppo un personaggio. La durata nel tempo di una serie, la sua stagionalità, rende sì il lavoro di produzione particolarmente arduo. Ma anche una figura fondamentale come quella del regista, che nei film garantisce la coerenza e la continuità oltre alla validità tecnica del prodotto, raramente rimane immutata.
NUOVE DERIVE DEL MEDIUM. Con l’infinità del testo la serialità assume i ritmi e i tempi di quella stessa quotidianità entro la quale – e finalizzata alla quale – si muove. Il problema non è di riconoscere che il testo seriale varia indefinitamente sullo schema di base; il vero problema è che ciò che interessa non è tanto la variabilità quanto il fatto che sullo schema si possa variare all’infinito. Quello che qui viene celebrata è una sorta di vittoria della vita sull’arte, con il risultato paradossale che l’era dell’elettronica, invece di accentuare il fenomeno dello choc, dell’interruzione, della novità e della frustrazione delle attese, “produrrebbe un ritorno del continuum, di ciò che è ciclico, periodico, regolare”. Conta il processo, non la meta; la ricerca, non la risposta. Ogni personaggio, spesso ogni episodio o ogni stagione, esplica la possibile risposta alla domanda esistenziale che sta alla base del concept. Una risposta definitiva, per la natura profonda del medium, in fondo non dovrebbe mai arrivare. Il cinema, al contrario, è il tipico medium della proposta, se non addirittura della tesi. Non è un caso che le serie tv che incontrano maggiori favori sono basate su soggetti originali. Dall’altro lato, va detto che il cinema degli ultimi anni arranca: le idee latitano e quando ci sono non incontrano i favori del pubblico. Si può dire che la tv stia superando il confine per incontrare un cinema estraneo a se stesso. E come nel proverbiale quesito sull’uovo e la gallina, non è dato sapere se il successo delle serie tv sia causa o effetto della crisi del cinema. Si impone un certo gusto medio estetico, che il pubblico tende poi a ricercare nei film, quando invece il cinema è ormai un’altra cosa.
Come negli anni ’90 abbiamo scoperto tardi, a causa dell’abitudine al cinema, che la vera natura della televisione non è il programma ma il flusso continuo, così oggi non ci stiamo accorgendo, a causa dell’abitudine al mezzo, che la serialità estende il flusso continuo della televisione alla fruizione cinematografica. Se poi, grazie alla rete, possiamo anche decidere in autonomia come e quando fruire di quella serie tv, decidendo autonomamente di andare alla ricerca di una specifica puntata o di una stagione intera, anche la durata della visione è determinabile caso per caso. Si può decidere di rivedere un’intera serie perché ci è piaciuta particolarmente o solo perché non l’avevamo vista in precedenza. Serie tv e formato digitale sembrano andare di pari passo e darsi man forte l’un con l’altro. Che le serie televisive – alcune belle, altre decisamente orrende – non siano il futuro del cinema come una sospetta campagna d’opinione cerca di imporre, non ci sono dubbi. Ma da qui a dire che il cinema non abbia più attrattive ne passa. Parecchio. Così come ridurre tutto il fascino e l’interesse di un film al suo svolgimento puro e semplice: un conto è trovare dietro i fatti il fascino dello storytelling, la capacità di trasformare in narrazione quello che apparentemente non lo è. Ma ridurre tutto a questa pratica retorica vuol dire cancellare d’un sol colpo le mille altre sfumature e significati che possono avere le storie. Che non si possono ridurre solo al loro riassunto.