C’era una volta il Cinema. Potrebbe essere la chiosa disillusa di nostalgici e puristi di fronte al nuovo successo del piccolo schermo per via delle serie che si alternano, sempre più impeccabili, numerose, varie e inarrestabili. A dirlo potremmo essere anche noi in quanto spettatori che affetti dalla dipendenza più diffusa del XXI secolo – quella da serie Tv appunto – potremmo trovarci a trascurare saltuariamente il grande schermo, disertando le sale, persi come siamo dietro a nuove stagioni e ritorni epocali. Tutta “colpa” degli showrunners, i responsabili creativi: ideatori, sceneggiatori, registi aggiunti, capi del personale liberi di assumere o licenziare membri della troupe, plenipotenziari che si occupano del casting, dell’assunzione dei registi e della gestione del budget. Capi indiscussi della produzione, senza i quali la macchina si ferma. I problemi, al massimo, nascono quando il prodotto non funziona: se la serie non ha successo e la produzione va in perdita, sono i primi a pagarne le conseguenze. Oggi è il ruolo più ambito, scalzando forse la figura del regista, sia per la fama che ne deriva sia per il ritorno economico. Retribuito, sì, in base ai diritti, alle percentuali di share e rating, ma per le serie popolari le royalties sono garantite a vita. E le cifre sono elevatissime.
I veri signori della televisione sono loro: definiscono un progetto, lo propongono, lo realizzano da soli. Sono loro l’elemento chiave per il successo, poco importa se ne firmano solo il soggetto lasciando ad altri la responsabilità delle nuove stagioni. È il loro nome l’ago della bilancia. J.J. Abrams firma “Lost” e “Alias” e produce “Person of Interest” . Matthew Weiner, la mente de “I Soprano” (ideata da David Chase), crea quel capolavoro di scrittura, regia e fotografia che è “Mad Men”. Con “Breaking Bad”, Vince Gilligan si guadagna onore e gloria, mentre Alex Gansa e Howard Gordon rinnovano le spy story con “Homeland”, adattando un format israeliano allo scenario internazionale post 11 settembre. Per non parlare di David Benioff e D.B. Weiss, amati e odiati dai fan di George R.R. Martin per il loro lavoro su “Game of Thrones”. Altri big sono Chuck Lorre (“Due uomini e mezzo”, ‘The Big Bang Theory”) e Ryan Murphy (“Glee”), Robert Kirkman (“The Walking Dead”) e Nic Pizzolatto (“True Detective”). In un mondo fatto soprattutto di uomini spicca una donna: Shonda Rhimes, che con “Grey’s Anatomy”, “Scandal” e “Le regole del delitto perfetto” ha tratteggiato dei ritratti al femminile talmente forti da essere subito riconoscibili per piglio e stile.
Corsi e ricorsi. Poi succede, sempre, all’imporsi di un nuovo mezzo che – sulle prime – sembra segnare il tramonto del precedente: la sensazione di rimpiazzo. Lo abbiamo visto nel passaggio dalla carrozza al treno, dalla pittura alla fotografia, dall’oralità alla scrittura, dal teatro al cinema, dalla radio alla Tv, dal fisso al mobile, dall’analogico al digitale, dai libri al web, dal materiale all’online, dai club ai social. Come se davvero la Tv fosse in grado di supplire in tutto e per tutto a ciò che l’ha preceduta e cui tuttavia deve tutto: alla base del linguaggio e della grammatica televisiva c’è sempre il montaggio audiovisivo e alla base del cinema c’è sempre la fotografia, l’immagine. Cinema e Tv, tuttavia, hanno in comune anche il fatto di essere sogni a occhi aperti, seppur con alcune differenze. Se il primo ha il vantaggio della sala buia, della proiezione e dell’immobilità (condizioni proprie del sognatore), la serie Tv, la “settima arte bis o 2.0” – come è stata definita – permette un tipo di fruizione più intimistica. Fra telegiornali e quiz, varietà e reportage, è la serialità, grazie a una maggiore qualità e all’ibridazione di generi (può essere contemporaneamente thriller e soap opera, triste e gioiosa, filosofica e d’azione) a emergere con più sintesi e forza, quasi a fare da specchio alle crisi dell’immaginario contemporaneo e alle conquiste sociali, ingenerando non solo immedesimazione, ma anche prese di distanza (per gli antieroi di “Breaking Bad”, “Romanzo criminale”, ecc.) e riflessioni. Oggi il telespettatore, grazie anche ai nuovi mezzi di fruizione televisiva come Netflix, necessita di trame articolate, di personaggi e situazioni più che plausibili, di storie dense e intense. Anche nel genere comedy, perché no: non basta più una battuta stupida o una situazione bizzarra per far ridere. La serialità gode di ottima salute e chi dice il contrario probabilmente vive in un mondo parallelo. Straordinario che nel giro di poco più di dieci anni l’industria sia riuscita ad alzare talmente il tiro da imporlo come vero e proprio fenomeno di culto. Un ulteriore passo avanti poi lo hanno portato le nuove piattaforme di streaming e produzione, Netflix in primis e Amazon subito dopo (con ottimi prodotti come “Mozart in the jungle” e “Transparent”).
Le vie della narrazione – e dell’intrattenimento – sono infinite: tantissimi episodi per raccontare una storia consentono un maggior approfondimento di dinamiche e personaggi ma, al contempo, possono costituire anche un boomerang se non si fanno le cose a dovere. Sarebbe stupido fare ragionamenti spocchiosi del tipo “io preferisco leggere un libro piuttosto che guardare una serie tv” e, più in generale, non si tratta di tempo sprecato. Mai. Se da un lato l’intrattenimento audiovisivo ha rilanciato la discussione sempre attuale sulle serie tv in correlazione al cinema, dall’altra non possiamo non ammettere che i film di Hollywood siano sempre più spettacolari e dinamici. Studiati e realizzati per piacere a un pubblico di massa. Abbiamo quindi assistito a come un incredibile lavoro di effetti speciali venga combinato con sapienza alla recitazione di attori sempre più preparati e competenti. Si parla già da tempo della morte del cinema come di un rischio altamente probabile. Tuttavia lo stesso è capace di rinascere dopo lunghi periodi di crisi, sia di tipo artistico che economico. Il piacere di vedere in una sala un prodotto non sarà facilmente soppiantabile dall’home video, considerando che al periodo di crisi degli anni ottanta seguì una grande rinascita e una particolare attenzione per l’esperienza della sala. Nonostante il successo delle serie televisive e di Netflix, è difficile stabilire se il cinema avrà una nuova battuta d’arresto e di quale entità. Di certo il sistema della distribuzione cinematografica è cambiato non poco nel corso degli ultimi vent’anni. Cambierà ancora, ma tendenzialmente dovrebbe resistere anche a questa ultima innovazione rappresentata dai canali tematici on demand come Netflix e affini.
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Ma la serialità odierna appare davvero più “avanti” rispetto alla settima arte? Negli States c’è sempre meno spazio per il film drammatico medio. Medio dal punto di vista produttivo – non della qualità – cioè senza grosso budget e senza nomi di peso. Minori limitazioni, maggiore autorialità, più libertà: consentendo maggiore sperimentazione ed essendo meno vincolata ai capricci della distribuzione, la serialità non si fonda più esclusivamente sulla riuscita di un pilot e, se anche lì per anni lo share l’ha fatta da padrone unitamente alla vendita degli spazi pubblicitari, oggi, con gli abbonamenti e con i nuovi servizi di streaming che sono anche produttori di serie, i ragionamenti commerciali sono diversi ed è nata la consuetudine di rilasciare interamente una stagione, dando al pubblico l’opportunità di vederla immediatamente quasi fosse un unico grande film di innumerevoli ore, senza dover attendere giorni e orari prestabiliti. Anche laddove la messa a disposizione del prodotto non è totale ma rispetta il criterio di una puntata a settimana, la durata fissa dell’episodio è stata sovvertita in favore di una che sia, di volta in volta, funzionale al racconto. Così David Lynch e Mark Frost rispolverano la poetica visionaria “Twin Peaks” e Laura Palmer con una serie evento da 18 ore su Showtime, altro canale a pagamento che ha sfornato cult come “Dexter”, “Shameless”, “Penny Dreadful”, “Homeland”. E sempre di Lynch, “Mulholland drive” – considerato uno dei più grandi lungometraggi del XXI secolo – fu concepito come il pilot di una serie Tv, poi rifiutata dalla ABC.
500 mila dollari è il valore, secondo la stampa Usa, di uno spot di 30” all’interno della seconda stagione di “Empire”, incentrata sui giochi di potere di una famiglia dell’industria dell’hip hop. Nel 2012, il valore delle serie importate in Europa era di circa 5,4 miliardi di dollari. Oggi, più del cinema, è proprio la serialità la carta con cui si gioca la partita delle pay tv ed è il punto di forza dei servizi on demand (vedi box-set Netflix). L’America non ha mai smesso di “colonizzarci” televisivamente, ma la situazione è cambiata dai tempi di “Happy Days”. Questa evoluzione si deve prima di tutto all’avvento delle pay tv, in particolare dei canali via cavo. La scrittura per un pubblico pagante, esigente, dai gusti sofisticati e più aperto alle novità, ha permesso di sviluppare nuovi temi e linguaggi. Chi mai si sarebbe aspettato di vedere delle donne parlare liberamente di sesso e relazioni prima di “Sex and the City” su Hbo? Queste innovazioni sono state successivamente tradotte per il pubblico mainstream dai grandi network: Cbs, Nbc, Fox, Abc. Anche la struttura cambia: il numero di episodi si riduce (da 20 a una decina), prendono piede le serie antologiche, si cercano contaminazioni con altri media, primo fra tutti il mondo dei fumetti. I telefilm diventano le grandi serie. Rispetto al passato c’è molta più offerta e possibilità di vedere le serie che piacciono, sapendo dove andarle a trovare. L’aumento di canali ha portato a una maggiore segmentazione del mercato, permettendo di avere non solo la serie mainstream, ma anche quelle d’essai, che magari fanno qualche numero in meno in termini di ascolti ma contribuiscono a completare l’offerta, dando spazio anche alla sperimentazione. Per aumentarne ulteriormente l’appeal (e tentare di scongiurare la pirateria), l’ultima tendenza è quella del day-and-date, la messa in onda in contemporanea con gli Usa.
Nuove possibilità espressive. E così Gus Van Sant (“Boss”) e le sorelle Wachowski (“Sense8”) si prestano al piccolo schermo. Il veterano Martin Scorsese produce “Boardwalk Empire” – ambientata nel mondo malavitoso tanto caro al newyorkese – e “Vinyl”, sulla storia del rock. Spielberg produce “Terranova”, “The Whispers” e “Band of Brothers – Fratelli al fronte”, miniserie ambientata in Normandia ai tempi della Seconda Guerra Mondiale. I fratelli Coen rimettono mano a quel cult che è “Fargo”. Ma già nel 2005 Quentin Tarantino girava l’ultimo episodio della quinta stagione di CSI: Crime Scene Investigation. Non sorprende allora che Paolo Sorrentino, premio Oscar di casa nostra con “La grande bellezza”, si cimenti con i pontefici, affiancato da Jude Law, Diane Keaton e Silvio Orlando. Tornando all’impalcatura diegetica, estetica, spettacolare e produttiva delle serie Tv, queste non deludono. Neanche quando si tratta di prodotti mediocri, che comunque qualcosa da insegnare ce l’hanno. Oggi, sebbene le saghe cinematografiche sopravvivano (il più grande e longevo esempio è quello di Star Wars), si nota una maggiore attenzione nei loro confronti dal punto di vista produttivo: i sequel non sono più tanto l’effetto sperato o addirittura non premeditato del successo di un primo capitolo, ma le trilogie vengono pianificate come opere seriali fin dall’inizio, con dei “finali” non del tutto conclusivi, che rimandano esplicitamente alla “puntata” successiva. Il lungometraggio, la forma chiusa, sembra appassionare meno i giovani, alla ricerca di certezze dagli idoli della scrittura infinita della serialità. Vero è, naturalmente, che anche i film in franchising continuano ad avere un incredibile successo – come l’universo cinematografico Marvel – ma a questo punto dovrebbe apparire evidente che tali produzioni epiche hanno molte meno possibilità di successo di quanto ne avessero alcuni anni fa. E, così, portare il pubblico – almeno quello generalista – in sala è sempre più difficile.
Vladimir Majakovskij sosteneva che «il cinema è la logica conclusione di tutte le arti». Ma oggi le generazioni più giovani ignorano Fellini, Visconti, De Santis, Germi, Zurlini, Petri, Comencini e Lattuada, dando vita a un terribile vuoto culturale. Le scuole, ancora avviluppate dalla forte presenza della cultura idealistica in Italia – soprattutto quella crociana – perseverano nel privilegiare lo studio delle materie umanistiche e riservano alla trattazione del linguaggio delle immagini un approccio superficiale, anziché sfruttare l’audiovisivo come stimolo per la discussione o per l’approfondimento di un argomento extra-cinematografico. Andrebbe comunque utopisticamente rivalutata l’esperienza della visione collettiva della sala buia, dove le reazioni psicologiche di fronte alle immagini sono ben diverse da quelle offerte dalla visione casalinga, da plaid e divano. Aiuterebbe, senz’altro, a far rinascere il piacere e la passione per il cinema. La serialità on demand sembra aver legittimamente vinto la scommessa. Ma a ben guardare si tratta di una vittoria apparente: il cinema resterà qualcos’altro, di diverso, forse di più artistico.