«Il mio è un gesto d’amore verso il partito». Così Marco Minniti, in un’intervista a Repubblica, spiega il ritiro della sua candidatura alla segreteria del Pd: «Resto convinto in modo irrinunciabile che il congresso ci debba consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie». Una candidatura durata appena diciotto giorni su cui pesano anche le tensioni interne all’area renziana. Il fatto è che Matteo Renzi ha lasciato girare la voce di in nuovo partito «oltre il Pd» senza mai smentirla. E mentre all’inizio ne parlava come di un piano B, nel caso in cui Minniti il congresso lo avesse perso, negli ultimi giorni ha lasciato trapelare che il progetto è un’opzione indipendentemente dall’esito del congresso. Perché per l’ex premier non è in discussione la stima per Minniti: è il “brand” Pd che nella sua analisi non funziona più. Da qui la richiesta di chiarimento da parte di Minniti, chiarimento che non è arrivato. Anzi, Renzi continua a dire di essere fuori dal congresso.
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TROPPE CANDIDATURE. «Quando ho dato la mia disponibilità alla candidatura –dice al giornalista Claudio Tito – sulla base dell’appello di tanti sindaci e di molti militanti che mi hanno incoraggiato e che io ringrazio moltissimo, quella scelta poggiava su due obiettivi: unire il più possibile il nostro partito e rafforzarlo per costruire un’alternativa al governo nazionalpopulista. Ho però constatato che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non accadere». Il problema è dunque legato alle tante candidature arrivate per installarsi al vertice del Nazareno: «Si è semplicemente appalesato il rischio che nessuno dei candidati raggiunga il 51 per cento. E allora arrivare così al congresso dopo un anno dalla sconfitta del 4 marzo, dopo alcune probabili elezioni regionali e poco prima delle europee, sarebbe un disastro. Sarebbe la prima volta che un segretario del Pd viene eletto senza la maggioranza, il che equivarrebbe ad accettare l’idea di un partito che sia solo una confederazione di correnti». L’ex ministro dell’Interno ha, dunque, maturato l’idea di rinunciare alla candidatura alle primarie, lasciando campo libero a Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e agli altri candidati.
LA SCISSIONE. Mentre Minniti incontrava i renziani Lorenzo Guerini e Luca Lotti per spiegare i motivi della sua decisione, Renzi era impegnato a Bruxelles in una serie di incontri per unire la vasta area dei liberali anti-sovranisti. L’ex segretario ha quindi deciso di accelerare il suo progetto di scissione, varando già a gennaio un soggetto che raccolga un elettorato di centro antisovranista e in contrapposizione al Movimento 5 stelle. E non ne fa mistero in un lungo post su Facebook: «Non mollo di un centimetro la mia battaglia contro i cialtroni che stanno mandando l’Italia in recessione. Ma non chiedetemi di stare dietro alle divisioni del Pd perché non le capisco, non le condivido, non mi appartengono». Renzi specifica di non volere più alcun impegno nel Pd: «Da mesi non mi preoccupo della Ditta Pd: mi preoccupo del Paese. Che è più importante anche del Pd. Tutti i giorni ho fatto sentire la mia voce contro il Ministro Sciacallo, Salvini. E contro il Ministro Prestanome, Di Maio. Non mi nascondo, io. Ma proprio per questo ho detto ai miei amici: non farò mai il capo di una corrente. Faccio una battaglia sulle idee, non per due poltrone interne. Per me le correnti sono la rovina del Pd. Le correnti potevano andar bene nei partiti del Novecento: nella Dc o nel Pci. Oggi le correnti non elaborano idee ma proteggono gruppi dirigenti. E tutta la mia esperienza, fin dai tempi delle primarie da Sindaco, dimostra che io sono abituato a rischiare in prima persona, non a chiedere il permesso a qualcuno. Per cui: chiedetemi tutto ma non di fare il piccolo burattinaio al congresso del Pd».
LE TENSIONI CON RENZI. Nell’intervista a Repubblica, Minniti nega che tutto questo abbia avuto un peso. «La mia decisione è indipendente dall’affetto politico che si è manifestato. Io ero in campo per difendere il nucleo riformista del Pd e arrivare ad un esito legittimante. Il resto non esiste». Quando Tito gli chiede esplicitamente se «ha avuto un peso il fatto che Renzi non abbia trovato il tempo di smentire la scissione», Minniti non risponde alla domanda e si limita a dire: «Spero davvero che nessuno pensi a una scelta del genere. Si assumerebbe una responsabilità storica nei confronti della democrazia italiana. Questo passaggio va oltre la cronaca. Indebolire il Pd significa indebolire la democrazia italiana».