Opera è il nominativo plurale di opus, ossia lavoro, occupazione, impresa. La Prima scaligera è l’evento per eccellenza – mondano e non solo – che declina al meglio, edulcora e mistifica la realtà del teatro made in Italy. Per carità, al Teatro alla Scala le eccellenze giganteggiano davvero ma lo spettacolo è straniante, quasi al pari della moderna ambientazione del titolo che inaugura. Sant’Ambrogio, patrono meneghino e dei melomani occasionali, quest’anno ha proposto Attila: A di “Atrocità”, doppia T come “Terremoto” e “Traggedia”, I di “Ira di Dio”, L come “Lago di Sancue”, A come “Adesso vengo li e ti sfascio le corna”. Il palinsesto però non era di Rete4 bensì quello di Rai1: ebbene no – dispiace deludere – non si trattava del celebre flagello interpretato da Diego Abatantuono. C’era piuttosto il basso russo Ildar Abrazakov, per la regia di David Livermore nel fortunato sodalizio con Riccardo Chailly, che festeggia i quarant’anni di attività sul podio di Via Filodrammatici da quei Masnadieri del 1978 (e questo è uno di quei momenti in cui – anche solo per un attimo – si vorrebbero spiare i pensieri più reconditi di Riccardo Muti). In apertura, prima dell’inno nazionale, sono stati ben sei i minuti di applausi dedicati al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto all’ingresso in Palco reale da un battimani che si è progressivamente trasformato in ovazione. «Cultura e musica sono baluardo della democrazia» avrebbe detto lui al termine prima di lasciare il Piermarini in compagnia della figlia Laura. Era la prima Prima del Capo dello Stato, che negli anni scorsi ha avuto un bel da fare, vedendosi quindi costretto a rinunciare al red carpet rispettivamente per impegni istituzionali (Giubileo 2015), crisi di governo (post esito referendum 2016) e viaggi all’estero (trasferta in Portogallo nel 2017). E così la città della finanza e dell’imprenditoria tributava un commovente e significativo riconoscimento all’unica vera figura di garanzia dal becero populismo imperante nello stivale. Ed è un chiaro messaggio politico.
Prima grande notizia della serata: Milano sta con Mattarella, mentre in buca Chailly – tesissimo – sta alle prese con un ripetuto colpo di sonno. Si applaude l’Istituzione con il suo prestigio, ma anche l’Uomo e il suo spessore morale e intellettuale. E tutti quei «Viva il Presidente» che si levano festanti da ogni ordine di palco suonano forse più come un’invocazione che come un augurio dati gli scarsi segnali di vita restituiti dalla più alta carica dello Stato. Il pubblico prosegue incurante l’interminabile omaggio e si è già in ritardo ancora prima di cominciare. Un segnale fortissimo e toccante, certo. Speriamo solo che Mattarella, avvolto com’era dallo scrosciante turbinio degli applausi, dagli svolazzanti taffettà e papillon di seta, fosse cosciente che una discreta fetta di italiani, per l’impareggiabile occasione, si sia venduta anche la catenina del battesimo. Perché – andrebbe ricordato – quei cinque minuti di standing ovation giungono da persone che hanno speso in media 900 euro di biglietto. Lo specchio dell’Italia reale, proprio. Ma si sa il Teatro Alla Scala è uno di quei luoghi dove si raccoglie il gotha che vive entro sfarzose residenze, ben protetto dalla massa del volgo supplicante le briciole lanciate dai merli delle torri (dai palchi, nel caso di specie).
E titolo non poteva essere più azzeccato per aprire dibattiti politici e disegnare paragoni tra passato remoto e presente. La storia di un barbaro. Quasi come la politica di oggi, più attenta all’offesa e alla violenza verbale che al dialogo e ai contenuti. In realtà, di barbaro, l’Unno verdiano interpretato da Abdrazakov, al suo terzo 7 dicembre, aveva poco, almeno nei costumi e nell’ambientazione: Livermore, tra un ledwall e l’altro, ha scelto di portare lo spettacolo in un Novecento distopico, in un periodo indefinito tra Prima e Seconda guerra mondiale, con alcuni richiami a film del Neorealismo e un tuffo in un locale anni ’40 con tanto di ballerine e piume. Il condottiero si è quindi trasformato in un tiranno contemporaneo, che nonostante la modernità dei totalitarismi vandalici non ha tuttavia perso i tratti distintivi che gli diede nel 1846 il librettista Temistocle Solera. Elemento dominante in scena è stato l’annunciato ponte, che – per rispetto della tragedia di Genova – il regista ha deciso in corsa di non far deflagrare, come da progetto originario, ma solo di far aprire lentamente in due.
Già nel Prologo la donna uccisa, il bambino che le corre incontro, il prelato che lo protegge: ed è subito “Roma città aperta”. Non ci sono i costumi dalle fogge che rimandano all’Impero Romano: il Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha provveduto con giacca e cappotto a colmare la lacuna. E se la regia teatrale incanta, quella televisiva porta gli spettatori dietro le quinte, durante i cambi di scena: il più bel regalo che il servizio pubblico potesse fare agli appassionati di produzione audiovisiva. Dai tableaux vivants a realistiche mani insanguinate, sul palco fanno apparizione persino due cavalli addestrati, uno nero per il re degli Unni e uno bianco per Papa Leone Magno. Alla Scala c’è spazio – naturalmente – anche per Raffaello Sanzio e l’affresco dei Musei Vaticani. Realistico il particolare del pavimento a mosaico, parzialmente danneggiato, tra le rovine di Aquileia. Poi, persino i quadrupedi sono intonati e vocalmente convincenti. Il soprano spagnolo Saioa Hernandez sfoggia una dizione e un italiano persino migliore di quello dei politici presenti e – chissà perché – non ne siamo sorpresi. Lei è Odabella. Ce l’ha con Attila perché gli ha sterminato la famiglia, e non è che gliele mandi a dire. Lui, maschio Alpha, coglie solo che è bonazza. Salvini – con tanto di felpa recante la scritta “Attila” – avrebbe probabilmente detto che l’Unno, a guardar bene, ha fatto anche fatto cose buone. E se Odabella incontra l’amato Foresto, capo dei profughi di Aquileia fuggiti dalla città distrutta, questo si preoccupa solo di eventuali ramificazioni sul proprio capo. Sì, col disastro intorno a lui pensa a quello. Comunque best character ever Papa Leone che, non solo con un gesto rimette Attila al proprio posto, ma lo fa in sella a un magnifico cavallo.
Alla soglia delle due ore e mezza, mentre a Torino va in scena il derby d’Italia, nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche: si diceva che l’Inter stava vincendo per 20 a 0 e che aveva segnato anche Handanovic di testa, su calcio d’angolo. Alla fine della fiera Attila ci insegna come una tresca, ritenuta più che sicura, ti può ammazzare e nemmeno te ne accorgi. «Ma noi donne italiche / cinte di ferro il seno / sul fumido terreno / sempre vedrai pugnar»: così la cultura elitaria invita velatamente le signore del pubblico a rinnovare lo stato di WhatsApp, sostituendo le solite frasi motivazionali sul week end e il caffè del lunedì mattina. E se viene spontaneo adorare l’arpista che subito rimette la coperta allo strumento così come lo spettatore medio davanti alla tv ripone il plaid sulle ginocchia, anche quest’anno si rimane basiti di fronte all’impossibilità di attribuire precisa datazione a Milly Carlucci (nemmeno il carbonio14 sarebbe in grado di stabilirne l’età). Qualcuno potrebbe pure rassicurare i tre tizi in piedi dietro la telecamera durante l’intervallo: nonne, zie, portinaia, vicini, parrucchiere ed edicolante hanno regolarmente preso atto della loro presenza in teatro. Possono serenamente tornare ai loro posti mentre i camerieri in livrea continuano a vagare spenti e svagati con le fette di panettone nel vassoio: non le mangia nessuno; al massimo si sbevazza un po’, solo perché fa più da ricchi. In tutto questo, qualcuno fa notare che mentre Giuseppe Verdi, a poco più di 30 anni, aveva già composto “Nabucco” e questo “Attila”, noi siamo ancora qui a sproloquiare.
Sembrano essere stati quindici i minuti di applausi cronometrati a sipario chiuso e rivolti a interpreti, direttore d’orchestra, regista e artisti del Piermarini, con lanci di fiori dal loggione e urla di approvazione pressoché unanimi. I palmi delle mani dei presenti hanno dovuto strenuamente resistere alla temporanea ma prolungata usura. Straordinaria poi la cifra messa insieme al botteghino: più di 2,5 milioni di euro per 1.888 spettatori. E mai come quest’anno s’è vista una celebrazione così accorata: alla filantropa canadese Sylvia Mantella non bastava farsi fotografare con il programma in mano nel foyer ma per fugare ogni dubbio ha drappeggiato le locandine su un provocante bustier nero Dolce&Gabbana. Beatrice Borromeo ruba a (quasi) tutte la scena con il suo abito monospalla total black a sirena di Armani Privé impreziosito dai dettagli della scollatura e strass, rossetto scuro e capelli raccolti. Fa ingresso insieme con il marito Pierre Casiraghi (notasi mocassino) e la sorella Matilde, che gioca con principesche balze, trasparenze e ricami scintillanti. Alessandro Cattelan, appena sceso dal palco di XFactor, ha indossato un completo di velluto blu: giacca doppiopetto e mocassino coordinato; papillon non pervenuto. In velluto anche la moglie Ludovica Sauer, fasciata in un abito nero con profonda scollatura e strascico. Senza dimenticare Laura Mattarella in blu scivolato a maniche lunghe, con scollo geometrico e Beatrice Vendramin, in long dress e blazer nero di Giorgio Armani. E ancora Carla Fracci, in abito bianco morbido, accompagnato da un’elegante cappa color avorio e Irene Pivetti che ha optato per un abito di ispirazione orientale in satin, con colletto alto, accompagnato da una giacca nera.
La Prima del Teatro alla Scala è un appuntamento mondano e mondiale, ma di quanti – visto il numero così elevato di ospiti – e soprattutto di quali italiani, intesi come “persone fisiche con elevate capacità di acquisto”, si parla nei titoli di quotidiani e tg? Dei rappresentanti di un 1% della popolazione che non rispecchia il Paese reale. Nemmeno davanti all’eccellenza di un’istituzione e di un’eccellenza culturale come quella del Teatro in questione. Attila: allegoria di fine impero e metafora del governo in carica che – al pari del flagello di Dio – lascerà solo macerie. Non sorprende quindi che i presenti si siano simbolicamente aggrappati a quell’ultimo imperturbabile baluardo della nostra democrazia che trova personificazione nella canuta chioma del Presidente e in quella misuratezza che le Istituzioni hanno da tempo abbandonato.