Una prima mondiale. È ciò che si addice, almeno in teoria, a un evento musicale la cui portata già dagli intenti programmatici si annunciava nazionale. Che poi a proporlo e a metterlo in scena fosse una macchina organizzativa che, in un panorama culturale e intellettuale desolante, stenta ormai da tempo, sembrava risultare assolutamente irrilevante: il riferimento volge diritto a “La Capinera” che ha debuttato domenica 9 dicembre – su musiche di Gianni Bella e liriche di Mogol – epigone della stagione lirica del Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania. La confezione commerciale del prodotto era quella di una malcelata trovata mediatica che fa perno sulla libera trasposizione scenica del romanzo epistolare di Verga ma soprattutto sul coinvolgimento di un parterre di eccellenti nomi – sebbene non strettamente attinenti all’ambito del teatro d’opera – quali quelli del cantautore catanese, dello storico paroliere di Lucio Battisti e – singolare ma vero – dello scenografo tre volte premio Oscar (The Aviator, Sweeney Todd, Hugo Cabret) Dante Ferretti che, dopo decenni alla ribalta internazionale in coppia con la moglie Francesca Lo Schiavo sui set di Fellini, Tim Burton e Petri, è autore dei bozzetti da cui sono stati realizzati i fondali dell’allestimento. A comprendere che non si trattasse di una produzione di Scorsese non serviva certo un cinefilo di vecchia data, se solo non fosse che al nome in locandina è stata originalmente ricondotta la qualifica di regista e non già quella ben più celebre di scenografo, mentre al sapiente operato di Marina Bianchi è – in sostanza – stato affidato il gravoso e ingrato compito di curarne l’aspetto più squisitamente scenico. Ma, se l’operazione si dichiarava manifestamente e in nuce di un cerchiobottismo spudorato e senza precedenti (data la fonte, l’ambientazione etnea e i precisi e diretti riferimenti alla Santa Patrona), l’attesa da parte dell’Ente lirico – da tempo non più abituato a simili roboanti collaborazioni – è stata febbrile e fin troppo ingenuamente fiduciosa in un massiccio afflusso di pubblico non più tanto fedele e affezionato ma che, con il consueto trasformismo, rispondesse presente d’innanzi alla curiosa proposta e alle istanze del presenzialismo mondano. La risposta alla prima, istituzionale e istituzionalizzata, è stata discreta ma comunque ben lontana dal sold out. La proposta risulta d’altronde singolare ma è ormai vezzo acclarato e reiterato da parte dei teatri l’inserimento in programmazione di titoli in prima esecuzione assoluta. E a Gianni Bella e a quella voglia di rimanere aggrappato alla vita che si legge nei suoi magnifici occhi verdi come le montagne cantate dalla sorella Marcella – presente in platea – non si può non voler bene. Ma il fascino di facciata della novità confezionata – che interrompe un repertorio saturo quale quello delle realtà ormai non più in grado di investire risorse nella sperimentazione o di ottenere riscontri al di fuori della routine dei titoli tradizionali – tuttavia cede di fronte a numerose perplessità che l’ambizioso (forse fin troppo) progetto implica e postula scontatamente.
UNA DIFFICILE DEFINIZIONE FORMALE. Il primo insidioso nodo – scorsoio verrebbe da dire – da sciogliere è senz’altro quello relativo alla sua definizione formale. Troppo semplice, troppo astuto rifuggire oculatamente e in assenza di pezzi chiusi l’etichetta di opera lirica, sebbene sorga spontaneo allora domandarsi quale sia l’attinenza con la sede nella quale il progetto stesso ha visto i natali. Se si chiarisce in prima battuta che di musical non si tratta data l’assenza di vere e proprie coreografie (l’operato della figura che striscia e si contorce accanto al Colera non può essere definito tale in senso stretto), data l’assenza di parti scritte per la recitazione e la presenza dei recitativi cantati, il campo è già sgombro da un dubbio tanto scontato quanto immediato. Si ripiega allora prontamente sull’ambigua formula di “melodramma moderno”. Il nesso con il melodramma – dal greco μέλος, “canto” o “musica”, e δρᾶμα, “azione scenica” o “recitazione” – di fatto c’è, sebbene venga poi dimostrata la totale ignoranza della sua struttura classica sia dal punto di vista squisitamente musicale quanto da quello delle variazioni. La musica c’è ma, per quanto ben lontani da Verdi o Puccini, i motivetti costituiscono la componente meno disturbante, l’unica a consentire l’estraniamento almeno parziale dal contesto insieme con un’azione scenica (di norma già prevista e sufficientemente dettagliata in partitura) che risulta piatta e monocorde esplicata da quel crogiuolo di ingenuità costituito da un libretto, firmato da Giuseppe Fulcheri, che fa quasi sorridere per la leziosità macchiettistica. C’è un testo posto in musica, in malo modo e con esiti per lo più infelici, ma questo non fa di un ensemble di canzonette un melodramma. Si fosse quanto meno tenuto a mente l’insegnamento della tradizione italiana, riannodando le fila del discorso interrottosi con Puccini, gli esiti sarebbero stati senz’altro più decorosi. Ma la definizione tanto sdoganata è quella di melodramma e – si badi bene – per di più “moderno”. Un’aggettivazione, insomma, tanto varia quanto ambigua se si pensa al sol fatto che la storia moderna prende il là già nel 1492 e che il Modernismo si attesta ai primi del Novecento. Ma da cosa è data la modernità del progetto? Se l’intento era quello di impressionare – magari positivamente – o di innovare sarebbe stato senz’altro più agevole virare sulla formula e sulla realizzazione di un dramma più propriamente “contemporaneo” e non certo di stampo verista. Ma per svecchiare il genere – ammesso ce ne sia bisogno – e per rinnovarlo formalmente e stilisticamente sicuramente non serve rivoluzionare o dimenticare i mirabili esempi del passato. Se a determinare l’attualità del prodotto non è il lessico sciatto, espedienti metrici che sarebbero suonati vetusti anche al tempo di Puccini o la denuncia della monacazione forzata, i suddetti elementi finiscono inesorabilmente per essere sintomatici della totale inesperienza in materia d’opera e di teatro musicale – per altro più che dichiarata per loro stessa ammissione – da parte degli autori. Opera o melodramma moderno che sia, non c’è definizione formale ibrida che tenga. Il linguaggio dell’opera non è quotidiano o umile ma il potere evocativo dei versi poetici certo non discende dalla componente aulica, per quanto la stessa sia parte integrante della concezione estetica e formale del teatro musicale. La credibilità di un prodotto non dipende e poco c’entra con l’orecchiabilità del testo, che se fa uso di un linguaggio “moderno” – nella sua più generale accezione – e quotidiano finisce poi per risultare anacronistico e per stridere col dramma verista e in costume. La presunta “modernità”, di fatto, serve esclusivamente a giustificare la confezione lessicale. Sotto questo profilo “La Capinera”, opera mancata, vituperio del melodramma e ibrido moderno non convince per la pochezza dei contenuti e delle argomentazioni ma soprattutto per la banalità della drammaturgia musicale, unitamente a un libretto che ne costituisce il limite principale, pressoché invalicabile. L’impressione è che si tratti più semplicemente del tentativo di una tardiva incoronazione e investitura di un prodotto che non solo formalmente ha ben poco da spartire con altri esempi variamente configurati e che appare unicamente finalizzato ad assicurarne una circuitazione in teatri lirici fondata essenzialmente sull’auctoritas e il rispetto che si deve agli ispirati artefici.
LA VESTE MUSICALE. E comunque sì – comunque la si metta – si tratta proprio di una prima assoluta. A cominciare dal fatto che – sin dal manifesto – figura un’eloquente indicazione: musiche di Gianni Bella con orchestrazione, arrangiamenti ed elaborazioni musicali di Geoff Westley. Mai visto prima d’ora, davvero. E già ci si interroga per sapere cosa questo voglia dire: perché pare di assistere alle vecchie barzellette in cui si diceva che i carabinieri camminano sempre in coppia, una parla e l’altro scrive. Dunque, qui qualcuno – Gianni Bella – ha scritto la musica (cosa? solo le parti vocali? oppure lo spartito per canto e piano?) e poi un altro – Geoff Westley, studi al Royal College of Music di Londra e numerosi precedenti sul podio di Sanremo – intento a orchestrare, elaborare, arrangiare. Peraltro quest’ultimo sembra sparito nel nulla, perché a Catania non si è visto manco per sbaglio. Ma ecco che, quando si apre il sipario, tutto appare chiaro. Sul fronte più squisitamente musicale, la partitura, infatti, è organizzata come una successione di numeri musicali, tutti di breve durata (genericamente intorno ai 3-4 minuti): per lo più arie – se così le vogliamo o possiamo definire – e quando diventano duetti o terzetti è perché lo stesso motivo rimbalza dall’uno all’altro dei personaggi, identico, senza alcuna minima differenza. Si prenda ad esempio il Brindisi, che fa di per sé già molto Traviata e che deve scontare dei versi (“Beviamo a Catania che muore sul mare”) tra i più infelici e menagrami che sia dato immaginare: Giuditta ripete la frase intonata da Nino prima di lei, allo stesso modo fa la Matrigna con quanto appena enunciato dal Padre. Vi è forse un sottile intento psicologico, in questa inutile, stancante, disarmante ripetizione? Assolutamente no: imbroccato il motivetto – perché di questo si tratta, un garbato valzerino – lo si ripete fino a esaurimento delle risorse. Unico, apparente colpo d’ala è la modulazione, dal minore al maggiore: che è quanto si studia con i rudimenti di armonia tonale, salvo presto di regola imparare che è possibile andare oltre. Molto oltre. Cosa che, peraltro, tutti hanno fatto, già almeno un secolo e mezzo fa. Ma non Bella, non Westley. Perché dell’opera hanno una visione non solo antica, non tanto antiquata. Nessun accenno di polifonia, nessuno sviluppo degno di nota, solo un ingente dispiegamento di fiati e percussioni. Dopo pochi minuti, infatti, ci si rende conto che si è in presenza di una successione di canzoni, tante quanti sono i brani che compongono l’opera, orchestrate strizzando oculatamente l’occhio alla musica da film: la dimostrazione è data dall’insipienza con cui sono affrontati i cosiddetti recitativi, che non solo incocciano inevitabilmente nell’improbabile versificazione del libretto, ma sono del tutto privi della prima qualità che dovrebbe contraddistinguerli: la componente teatrale. E così, senza soprassalti, si attraversa consapevoli una partitura non priva di lungaggini, che all’inizio si segue per curiosità, alla fine si sopporta con la faticosa rassegnazione a un tessuto musicale piatto. Quella stessa che si richiede a Maria per tornare al convento, dove la attende una monacazione che è reclusione forzata in un luogo che non le appartiene.
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GLI INESPLICABILI LIMITI DEL LIBRETTO. Il medesimo interrogativo poi si pone a proposito del lavoro del librettista. Presumendo che il compito di Giulio Rapetti, in arte Mogol, inossidabile ottantaduenne storico poeta della musica leggera, fosse circoscritto alle liriche delle romanze (scritte in sei ore, tutte d’un fiato… e si vede), viene spontaneo nel caso in specie domandarsi se il Fulcheri si sia quindi limitato all’adattamento della fonte bibliografica e quali parti siano state oggetto della sua elaborazione. Con la conseguenza che il singolo apporto di ciascuno dei due risulta di ardua ed equivoca distinzione. Il fatto poi che Maria muoia in un’improvvisa, irrisolta e incomprensibile estasi e non in disperata follia costituisce una sensibilissima variazione che ugualmente poco influisce sull’andamento delle vicende. Il genio e la musa del duo, tuttavia, si emancipa eccessivamente dal pensiero logico e finisce per arenarsi in affettate e stucchevoli leziosità, talvolta anche di dubbia attinenza poetica. Per oltre due ore il libretto si dipana in un indiscriminato tourbillon di rime, in gran parte baciate, alternate, incrociate e incatenate che finiscono, in uno schema musicale caustico, ripetitivo e monocorde, per rimarcare ulteriormente un lessico di per sé poco musicale e tutt’altro che poetico. Persino il sovratitolo risultava inutile, essendo perfettamente comprensibile la sequela di termini che mai, fino a ieri, avrebbero lontanamente pensato di fare occasionale sortita nel teatro musicale: “elettricità” su tutte, buttata lì, decontestualizzata e tutt’altro che funzionale. La tessitura è inadatta ai registri vocali classici e all’estensione vocale dei cantanti d’opera ed ecco che si ricorre ai microfoni panoramici. Ma se il recitativo appare slegato, costringendo i cantanti a un’emissione convulsa al solo scopo di inseguire la musica, il complesso del libretto pecca di espressività, musicalità ed efficacia drammatica. Così i personaggi finiscono per essere schematici e privi di quella coerenza interna, quell’approfondimento psicologico che da Rossini in poi diventa una prerogativa. I rapporti e le dinamiche familiari non risultano sufficientemente scolpiti nella formazione del nuovo nucleo e nel rapporto con la fede. La staticità impera e disarma. Nel libretto non vi è, infatti, traccia di didascalie e descrizioni dell’azione scenica bensì solo di sintetici ponti narrativi esplicativi delle singole circostanze. Imbarazza quell’occasionale vernacolo ma è il contenuto ordinario a non risultare toccante: non riguarda da vicino lo spettatore, non coinvolge, non emoziona, non ne discende immedesimazione. Non giovano mutazioni lessicali per infarcire il prodotto di una parvenza pragmatica e non è nemmeno la discrasia tra la presunta attualità e la vetustà estetica ed esteriore a turbare particolarmente. L’eccellenza non sempre passa dalla semplificazione. E poi, chi l’ha detto che l’opera è aulica e vetusta, che i capolavori immortali e le opere liriche da un secolo buono a questa parte sono sempre le stesse? E, in ogni caso, un motivo ci sarà. Già appare un’impresa riportare in scena quelle. Per il resto, si apprezza l’audacia ma la coesione drammaturgica – beh – è un’altra cosa.
L’ALLESTIMENTO SCENICO. Il sipario si apre e sul fondale dipinto si staglia Porta Ferdinandea con il suo imponente e grottesco mascherone: mentre si svolge il mercato con un via vai di variegata umanità da presepe napoletano e tanto di coreografia popolana, le percussioni annunciano l’incursione e i passi del Colera, scuro e tetro, con mantello in spalla e cappuccio in testa, macchiettistico untore più che pestilenziale epidemia. Un archetipo moderno, un personaggio ambiguo e immaginario che subito si presenta e costantemente si accompagna a una controfigura femminile che miete vittime al solo passaggio, salvo poi al momento della morte di questo uscirne e trasformarsi in mostruosa creatura. Un demone incompreso e contraddittorio che – un po’ come l’Innominato manzoniano – inizia ben presto a covare un malessere interiore e una crisi esistenziale che lo portano prima alla dissociazione e poi al pentimento. La struttura drammaturgica è bozzettistica, mera successione di fatti in sequenza, senza tuttavia un ductus narrativo compiuto, coeso e coerente. Ferretti, dal canto suo, si limita a una statica disposizione delle masse, a tre fondali e a un’attrezzeria essenziale, simbolica e banalmente ordinaria per alternare gli ambienti della piazza del mercato, del convento di clausura (esemplificato con una semplice cupola con due oblò), della casa di campagna e del Duomo (la medesima Porta inquadra l’altare e una crocifissione), trasponendo l’azione a cavallo tra Otto e Novecento. Il primo atto si chiude con la Festa di Sant’Agata e la processione del fercolo incentrata interamente sul misunderstanding del nome Maria: Nino, promesso sposo di Giuditta, si è innamorato della novizia e parla di lei rivolgendosi al busto che potrebbe rappresentare tanto la Santa Patrona quanto anche la Vergine. C’è poi la monaca pazza che, tra mille spasmi, grazie alla follia non soccombe al dolore e l’idealizzazione di Nino – quasi trasfigurato in qualcosa di trascendentale – da parte della innocente giovane. “La Capinera”, su uno sfondo così sbiadito e a tratti oleografico, stenta a spiccare il volo e si trascina annullando il potere evocativo di temi forti e sentimenti universali. Complice una durata abnorme, da compiuto melodramma, e imbarazzanti pause tra un pezzo musicale e l’altro che, interrompendo il flusso scenico, sembrano invocare di diritto un tiepido e forzato applauso di cortesia. I costumi curati da Giovanna Giorgianni sono ricercati nelle fogge, mai manierati o macchiettistici e ben si integrano con le scene. Nota di merito anche al brillante lavoro di truccatori e parrucchieri.
IL CAST E LA DESTINAZIONE DA RIPENSARE. L’Orchestra del Teatro, diretta dalla bacchetta di Leonardo Catalanotto, esalta ove e come può i pregi della partitura restituendo un’esecuzione corretta e grossomodo godibile così come il Coro istruito da Luigi Petrozziello nei numerosi e misurati interventi. Il cast, al di là delle singole prove vocali, fa inevitabilmente i conti con la scrittura nella quale si cimenta. Il soprano Cristina Baggio, vocalmente quasi sempre corretta, veste per l’occasione i panni di una timorata Maria, che le sembrano cuciti addosso, sempre elegante e armoniosa com’è nell’intima ma disperata interpretazione del candido e delicato personaggio. Andrea Giovannini è un Nino appassionato ma decisamente meno appassionante, a un buon banco di prova attoriale. Il soprano Sabrina Messina (Giuditta) e il mezzosoprano Sonia Fortunato (Matrigna) confermano ancora una volta la loro versatilità, così come il contralto Lorena Scarlata nei panni di una materna e tutta umana Badessa. Convince pienamente il baritono Francesco Verna (il Padre), per sicurezza e padronanza del mezzo. Il basso Carlo Malinverno, infine, è un Colera di discreta fattura. Al termine gli applausi sono tiepidi e di correttezza. La standing ovation è esclusivamente per Gianni Bella, che con difficoltà di deambulazione fa la sua apparizione in proscenio visibilmente commosso, emozionato e infinitamente grato al pubblico che con rinnovato affetto lo ha sostenuto. Per il resto, al di là delle sopra argomentate notazioni stilistiche e formali della confezione, da più parti sono stati rilevati i limiti di un prodotto che non riesce a supplirvi con quelle perfette alchimie tra narrazione, spettacolo, musiche ed emozioni in grado di muovere e commuovere le più ampie fasce di pubblico. Duole ammettere che le perplessità della vigilia, al di là dell’imponente e accidentale battage mediatico, trovano conferma anche agli occhi del melomane occasionale o della domenica: “La Capinera” si attesta come un prodotto onesto e come un’operazione per certi aspetti intelligente ma fatalmente destinata a un segmento di mercato e a sedi diverse da quelle dei teatri e degli enti lirici. In questo senso si auspica una politica più accorta da parte del Teatro Bellini nella proposta di nuove “sensazionali” iniziative e una più lungimirante da parte degli autori, che nonostante i circoscritti limiti del prodotto e le ambiguità della sua confezione, sapranno certamente trovare una destinazione funzionale alla valorizzazione dell’ambizioso e amato progetto.