Parigi, interno borghese, un elegante appartamento sobriamente arredato. Un uomo, sua figlia. Lei, preoccupata dalla regressione dei comportamenti paterni, dal licenziamento dell’ennesima badante, dai progressivi vuoti di memoria e di lucidità del genitore. Lui, rimasto solo, bisognoso di cure e assistenza, burbero, irascibile, ma anche spaesato, vulnerabile, altalenante nei suoi umori e nelle reazioni. La parola Alzheimer aleggia sin da subito nell’aria, ma non viene pronunciata. «Allora? Mi vuoi dire quello che è successo?». La prima battuta, pronunciata da Anna (Lucrezia Lante Della Rovere) e rivolta a suo padre Andrea (Alessandro Haber), immette subito con estremo garbo nel brillante flusso narrativo della scrittura postmoderna di Florian Zeller, piena com’è di collisioni e sostenuta da ricchezza introspettiva. A dominare la scena è un uomo anziano ma ancora vitale e indipendente. Confonde luoghi, persone, avvenimenti. La ricerca del suo orologio da polso è simbolico leitmotiv della pièce: lo ha smarrito, lo ha dimenticato in bagno, lo ha riposto nel solito nascondiglio nel cassetto della cucina o forse è stato facile preda delle mire dell’ultima badante che l’amorevole ed esausta figlia – consapevole e inerme di fronte a questo lento declino – gli ha messo in casa. Fatto sta che non ricorda.
Andrea è in un angolo, immobile, dopo essere stato schiaffeggiato. Non sa chi è quell’individuo che lo ha percosso o, meglio, sa che dovrebbe riconoscerlo, ma non riesce. L’unica spiegazione è che qualcosa non torna. Ed è sicuramente un complotto ai suoi danni. È ovvio che sia così, se anche Anna, sua figlia, alle volte non ha più una fisionomia conosciuta, e dice di partire per Londra un giorno e l’altro lo smentisce. È il mondo intorno a lui che non quadra. L’alternanza di giorno e notte è scandita solo dallo spegnersi e dall’accendersi delle luci dietro le grandi vetrate. L’inesorabile incedere della malattia degenerativa prende il sopravvento sull’esistenza di un uomo che piano piano va scomparendo, mentre il tempo e gli incontri perdono la loro linearità, i volti vengono sovrapposti ad altre persone o sostituiti, e gli oggetti della vita quotidiana progressivamente scompaiono, dalla memoria e dalla scena. E di pari passo si obnubilano anche i punti di riferimento, i ricordi, la felicità della famiglia. Posta di fronte alle continue smagliature, distrazioni, al progressivo degradare, Anna prima gli assicura un giro di esperte badanti poi decide suo malgrado di accoglierlo in casa, con la forzata complicità del compagno. Ma nulla funziona come dovrebbe.
Con il geniale espediente narrativo de “Il Padre” – già nel settembre del 2012 al Hébertot Theatre di Parigi con Robert Hirsch diretto da Ladislao Chollat e vincitore due anni più tardi del prestigioso Prix Molières – Zeller ci costringe a compiere assieme al protagonista un toccante viaggio nei meandri di una psiche stravolta, rendendo lo spettatore partecipe del suo smarrimento, delle sue distorte visioni, del suo progressivo e irreversibile distacco dalla realtà, facendogli toccare con mano la drammatica condizione del disagio mentale e il problema della convivenza forzata. Tutto ciò è risolto con una soluzione spiazzante: la realtà appare come nella mente di Andrea, creando una forte e dolorosa empatia e affiancando alle scene alcuni brevi segmenti “deformati” dell’inestricabile labirinto percettivo in cui il protagonista perde autonomia e cognizione della propria identità. Mentre sta ancora familiarizzando con nomi e volti, entrano ed escono di scena quattro validi interpreti: gli sdoppiamenti di Anna, del suo compagno Piero, della badante Laura, gli alter-ego che la malattia di Andrea crea, modificando i corpi, non riconoscendone i volti, confondendo i tempi e cancellando i dettagli. Si impiega qualche minuto a comprenderlo: si alternano in brevi sezioni narrative e rapidi flash, scompaiono per non tornare, indossano abiti diversi e un differente ruolo, ripetono le stesse azioni, punteggiano la pièce di riprese delle stesse gag, definendo – in un buffo bilico tra empatia e straniamento – la consistenza farraginosa, a volte ologrammatica, del debole tessuto mentale. Angoli più saldi, verosimiglianza alterata, costernanti precipizi di non-sense.
In questo mondo sempre più incerto e rarefatto, dove le facce si mischiano, il genero diventa l’ex marito della figlia, l’appartamento di Parigi forse è il suo, forse quello della figlia, forse un terzo ancora a Londra, noi lo vediamo con gli occhi di Andrea, vediamo quel che (sembra?) accadere attorno a lui, per poi rapidamente rovesciarsi nel suo contrario, ad ogni cambio scena, marcato dal buio in sala. La realtà è diversa, le situazioni opposte, i personaggi cambiano faccia, emozioni, intenti. Il padre di Haber è giocato tra manifestazioni affettive fatte di slanci e di ricordi, bruschi rientri in un sé stesso in via di frammentazione, diventando motore assoluto dell’intero disegno drammaturgico che si sviluppa attraverso le sue sensazioni, le contraddittorietà che gli provengono da quel meccanismo in via di rottamazione che è il suo pensiero. Queste costituiscono la chiave di un testo sagace che impone allo spettatore di non ricevere oggettivamente le scene come via via gli si presentano ma di filtrarle attraverso il personaggio del padre e di entrare in quel mondo devastato dal disfacimento del sistema neurologico.
A nulla valgono i tentativi della figlia di rendere agevole al genitore un’esistenza sempre più proiettata verso l’annullamento, perché l’ospitalità nella propria casa, i continui cambi di “badanti” che puntualmente lui rifiuta, la tolleranza malcelata del compagno, rendono ardua la permanenza nel contesto familiare. Ma nella mente di Andrea c’è anche un’altra figlia – in realtà scomparsa prematuramente – a rendersi disponibile ad affiancare la prima nel difficile compito di ospitare e gestire il vecchio, contribuendo a moltiplicare le immagini, gli sdoppiamenti e gli equivoci. Anna, in un momento di solitudine, isolata attraverso una luce che la restituisce quasi come un pensiero ripensato, racconta come, vedendo il padre dormire sereno come un bambino, gli stringe le mani al collo fino a che non ne sente più il respiro e si rende conto di averlo ucciso. Si tratta di un incubo, e l’espediente non ha sviluppi. Anche i passaggi che, per qualche istante, promettono di sovvertire, oppure espandere, questi meccanismi codificati vengono cambiati di segno e, infine, ricondotti ad essi: la scena, sviluppata con l’evocazione verbale di immagini interessanti, perde tutta la sua contundenza nel momento in cui viene utilizzata come semplice presidio di legittimazione dell’oscurità di certe fantasie. La soluzione sarà meno cruenta e inevitabilmente la donna si arrenderà alla difficile e dolorosa decisione di fare approdare l’anziano presso una struttura specializzata, con tanto di materna infermiera (Daniela Scarlatti) che lo accompagnerà, perplesso e rassegnato a fare qualche passeggiata nel parco, dove un ultimo simbolico sole illuminerà il suo stentato cammino; un sentimento di rinata complicità che addolcirà, forse, la sua afflitta e amara senescenza.
Si compie così una parabola umana che dai primi accenni di instabilità, di lontananza dal mondo, evolve drammaticamente fino al ritorno fetale di Andrea all’accoglienza nel grembo rassicurante – e irrevocabile – d’una anonima clinica. Le geometrie scenografiche di Amodio restituiscono un elegante appartamento parigino: è Anna, quasi subito, a collocarvi l’azione ma anche il fondale bianco con stucchi e cornici a rilievo suggerisce una fredda architettura da interno, modernamente ammobiliato. Tra gli scintillii metallici del carrello degli alcolici e le eleganti sedie di design Ghost di Kartell si muovono, per poco più di un’ora e trenta di atto unico, padre e figlia, nella forse eccessivamente rapida sequela di traslochi. Anche le luci, che all’improvviso si abbuiano, scandiscono molto bene percorsi logici che si spengono, mentre pochi ed efficaci accordi sonori sottolineano il precipizio mentale che sta ingoiando la memoria. Il graduale svuotamento della mente procede di pari passo – in un’incisiva allusione metaforica – con quello dell’appartamento in cui si svolge la vicenda, dove a poco a poco svanisce l’arredo; e la “casa dolce casa” che vediamo all’inizio si trasforma lentamente in quella che sarà la dimora definitiva dell’uomo: l’asettica cameretta di un ricovero.
«Ho la sensazione di perdere le foglie una dopo l’altra». Sono le ultime parole che Haber pronuncia in scena, prima di cadere ancora nell’oblio della mente: è l’autunno più terribile, il disgregamento progressivo e totale di un’intera esistenza che, come polvere, svanisce nel vento inesorabile della malattia, azzerandola come non fosse mai stata vissuta. La toccante pagina di Zeller, abile nella scrittura e nell’intreccio, indaga non solo il dramma del malato con il mistero della sofferenza ma anche le responsabilità e il disagio progressivo, inarrestabile della famiglia che lo circonda. Si sorride dunque, poi la tragica realtà quotidiana prende il sopravvento. Soffre di più proprio chi gli è accanto, chi vede che non ricorda più l’amore, il legame. A livello verbale e scenico “Il Padre” parla di dolore con leggerezza e con ironia, delicatezza e intelligenza, senza cedere alle lusinghe del pietismo e della retorica, con uno stile asciutto, adatto a raccontare il dramma tragicamente attuale di una delle piaghe più dolorose del nostro tempo. A tratti con sottile, amara, pungente ironia, lo spettatore – in un percorso dolorosamente poetico – vive empaticamente e con velata commozione finale le contraddizioni in cui il nostro protagonista incappa perdendo a poco a poco le facoltà logico-analitiche, non riuscendo più a discernere il reale dall’immaginario. L’accettazione della malattia è “ricreata” in una scatola moderna, in una stanza della tortura in cui appaiono le proiezioni dei fantasmi partoriti dalla mente malata dell’anziano, sempre teso a negare. L’incomprensibilità del mondo dal punto di vista della patologia è così trattata in modo sorprendente, restituendo un quadro ficcante e lacerante su un tema pesante e scomodo: l’Alzheimer, con tutte le sue implicazioni patologiche, relazionali, psicologiche e sociali fa della pièce un esperimento riuscito. Il rovesciamento continuo dei punti di vista e della realtà percepita – o non – da Andrea all’inizio disorienta, poi coinvolge e commuove.
Il dolore è maestro di vita. E colpisce la cura con la quale Haber ha saputo usare la chiave dell’innocenza e dell’incredulità che nel finale culminano in un pianto di profonda solitudine (“Voglio mia madre! Mi sento tanto solo!”). Verosimilmente alterna momenti di oblio, vuoto totale, a pochi istanti di lucidità. L’aggressività è una forma di difesa quando improvvisamente si rende conto di cosa gli sta accedendo. Passaggi struggenti ma anche momenti ironici prima della catarsi finale. Anche il suo incedere scenico è impacciato come quello di un fanciullo che ha bisogno di continue certezze e costante protezione, evidenziando ancor più il disagio della malattia, senza però cadere nella trappola di banali patetismi o adottando fin troppo facili clichés recitativi. La mente del suo Andrea, priva di ricordi e riferimenti, si affida a un’infermiera – come un bimbo alla mamma – per andare a fare una passeggiata nel parco della clinica. Esce di scena barcollando. La porta della stanza si chiude, la ribalta si rabbuia e cala il sipario sulla sua esistenza. Alessandro Haber emerge come una cattedrale, in questa magistrale prova d’attore – il personaggio sembra scritto per lui – nella quale modula ironia e commozione. Un leone in gabbia che presenta aspetti scontrosi, ma anche infantili, si spinge a corteggiare la badante (una dolce e ironica Ilaria Genatiempo, trecce rasta e appunti da volontaria intellettuale alle prese con un caso che per lei diventa più che lavoro materia di studio), per ritornare a un atteggiamento diffidente. La forza sta nelle sfumature e nella capacità di rendere la progressione del male e dello smarrimento. Ne esce un personaggio delicato e dolcissimo dall’esito stilistico indimenticabile, fulcro e tono di tutta la narrazione, capace di stupire con inaspettati cambi di ritmo e varietà di atteggiamenti. Sono sapientemente rifuggiti gli aspetti caricaturali di un personaggio a rischio di pietà con un “repertorio” che lo rende unico nel panorama degli interpreti italiani.
Fortemente veritiera è la figura di Anna, alla scoperta di un padre che non conosceva e alle prese con la devastante esperienza dell’“inversione dei ruoli”. Una misurata Lucrezia Lante della Rovere dall’alto dei suoi centonovanta centimetri inonda il palcoscenico con una folata di aristocratica serenità e di nobile nonchalance, delineando con accenti modulati la figlia modello, scansando l’esemplarità del personaggio e nutrendolo di una verve fra l’ilare e il disperato. Disposta a mettere a repentaglio la propria vita sentimentale, ne emergono, a margine, le angosce che con Haber generano un vistoso ed eclatante ossimoro per statura e stato d’animo. Eppure sono padre e figlia sulle assi del “Verga” di Catania. Lui e lei, padre e figlia in scena, bisticciano, si abbracciano, ridono. Su consiglio del medico – un impeccabile e compassato Alessandro Parise – gli affianca prima la vispa, puntigliosa e precisa ragazza come badante e somministratrice puntuale di medicine, che lui nella sua regressione allo stadio infantile inizia a circuire con fare scherzoso e ingenuo, tanto da non risultare sgradito pure con un delizioso tip-tap, confondendo la realtà della sua professione di ingegnere con il sogno utopistico d’essere stato ballerino. Il padre dimentica il vissuto, per cui crede Anna sia ancora sposata mentre ormai da cinque anni è divorziata e vive con il nuovo compagno Piero (un ottimo David Sebasti) che desidera essere più realistico ed oggettivo, distaccato com’è sul piano sentimentale. Ma anche nei momenti di più acuta disperazione la donna non si abbandona al pianto; al contrario, ne traduce il travaglio interiore pronunciando qualche battuta con un tono impercettibilmente più acuto.
Una storia di grande intensità e poesia che si fregia della regia semplice ed efficace di Piero Maccarinelli. All’affiatato cast di grande valore e altrettanta umanità basta il testo con la sua sensibilità e arguzia nello sviscerare la tematica: orologi che all’improvviso, dopo aver spaccato il secondo, si inceppano e non vengono portati a far riparare, ma solo depositati in una cassetta. Un’esemplare carrellata su affetti, sentimenti, rapporti che si manifestano fra un padre e una figlia quando insorge un problema che mette in crisi un andamento familiare “normale”. Zeller scava nelle pieghe della società mentre la traduzione e l’adattamento del testo con estrema cura linguistica lo rendono sensibile attraverso i caratteri impressi ai personaggi, imponendo loro un’umanità più complessa, articolata e talvolta contraddittoria, come avviene davvero nella vita attraverso gesti, silenzi, sguardi. Teatro che smuove le coscienze: una forza, un valore, un senso, un’etica, che fa pensare, riflettere, emozionare. Le angosce, le ansie e tutte le sfaccettature della vita veicolano un pensiero denso e profondo che mai anestetizza la nostra emotività. La verità scalza il perbenismo teatrale. Ed emerge l’atavico problema della rappresentazione della malattia e delle modalità più corrette e verosimili della trattazione. Motivo in più per vedere “Il padre” è il suo sostegno ad AIMA, l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer, ricordata dallo stesso Haber al termine dello spettacolo. E così, dopo lo Stabile etneo, venerdì 21 dicembre lo spettacolo si trasferisce a Catanzaro dove chiude il brillante anno solare del Politeama e il cartellone varato dal sovrintendente Gianvito Casadonte. Forte di quella poeticità che ridona, in questa situazione, quel tanto di coinvolgente umanità dilaniata nel progressivo percorso degenerativo-mentale imposto da un’inclemente patologia.