Le navi delle organizzazioni non governative tedesche Sea-Watch e Sea-Eye, con 49 richiedenti asilo a bordo, lasciate dall’Europa in balìa del mare grosso, senza un porto sicuro in cui approdare. Il lancio di gas lacrimogeni da parte della polizia di frontiera per respingere circa 150 migranti arrivati con una “carovana” dall’Honduras che stavano tentando di sfondare la recinzione al confine tra Usa e Messico a Tijuana. In Brasile l’insediamento alla presidenza del reazionario e misogino Jair Bolsonaro. Segnali allarmanti con cui si è aperto il 2019, in contrasto con il richiamo al “buonismo” e alla tolleranza lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso di fine anno.
Nell’anno in cui sarà celebrato il trentennale della caduta del Muro di Berlino, si rischia di assistere a nuove divisioni, alla costruzione di altri muri, reali e virtuali. Da quello che il presidente americano Donald Trump insiste di realizzare al confine con il Messico a quelli che il dilagare del sovranismo sta alzando dall’Europa al Brasile. Non a caso una delle prime pubblicazione del nuovo anno s’intitola “The Wall”. Nel romanzo, scritto da John Lanchester, s’immagina la costruzione di un muro tutto intorno alla Gran Bretagna per tenere lontani gli “Altri”, ovvero moltitudini di reietti condannati da un cataclisma ambientale. E mentre in Iraq le donne che si espongono vengono uccise misteriosamente (quattro nel giro di pochi mesi: Shimaa Qassem, ex miss Iraq, Suad al-Ali, un’attivista, Rafeef al-Yassiri e Rasha al-Hassan impiegate in un centro estetico e Tara al-Fares), un romanzo come “Vox” di Christina Dalcher crea un mondo in cui le donne sono ridotte al silenzio, autorizzate a pronunciare soltanto cento parole al giorno. E, ancora, americani in fuga verso il (ricco) Messico; il Friuli in mano ai nazisti; la guerra nucleare scatenata con un tweet.
MEGLIO OGGI CHE DOMANI. Uno scenario a tinte fosche, che alimenta il pessimismo. L’egemonia culturale della nostalgia viene spazzata via dalla distopia, l’immaginazione di una società o comunità altamente indesiderabile o spaventosa. Ovvero la paura del futuro. Se fino a ieri si ripeteva che si stava meglio prima, adesso si diffonde l’idea che oggi si vive meglio di domani. Che se da una parte è una conquista e un riconoscimento del presente e dei passi in avanti fatti dalla scienza, dagli stili di vita, dalla tecnologia (come scrive Massimo Gramellini sul Corriere della Sera nell’articolo “Dal 2018 al 2019, la magia di vivere il presente”), dall’altra indica la fine dei sogni, delle utopie, delle speranze. Si vede nero, si ha una visione catastrofica del mondo. Che è il mood di molti libri in uscita e di serie tv di grande successo, da “Game of Thrones” a “Black Mirror”, mentre al cinema sarà l’anno di Batman con quattro uscite: “Gotham City Sirens” a san Valentino, “Nightwing” durante il Memorial Day (il 27 maggio), “Batgirl” per la regia di Joss Whedon in agosto e “The Batman” a novembre.
Attraverso la distopia, questi romanzi e film offrono immagini del futuro diametralmente opposte all’utopia, al mondo ideale sognato da Tommaso Moro. Tratteggiano mondi post-apocalittici in cui i sopravvissuti lottano con loro stessi per ritrovare ragioni di vita e di speranza a cui aggrapparsi oppure combattono poteri oppressivi e totalitari, o ancora cercano in violenza ed esperienze estreme una via di fuga da una società che non sembra riconoscere loro un futuro. Cavalcano così le ansie di un presente avverso, retto dalle angosce di incombenti calamità, dalle incertezze del domani e dall’evoluzione tecnologica incontrollabile.
«Credo che in ogni epoca la nostra immaginazione culturale abbia prodotto un’idea di distopia e ognuna di queste distopie rivela le paure di quel particolare tempo e luogo» spiega Jon Rafman. L’artista canadese racconta, attraverso linguaggi artistici molto diversi, il presente della nostra vita iperconnessa, rimettendo al centro la domanda fondamentale sull’idea stessa di realtà. «Nella mia di distopia gli esseri umani sono trasformati in avatar senza voce che subiscono torture e non possono morire. Oggi non siamo governati da un’entità esterna e totalizzante con in “1984” di Orwell, ma da certi algoritmi che ci dominano».
LA RISCOPERTA DI ORWELL. «La nostra è probabilmente definibile come l’età della distopia» fa eco Danilo Breschi, professore associato di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma nel suo intervento “Distopia: utopia negativa o negazione dell’utopia?”. «Nel 1868 il filosofo filosofo John Stuart Mill introdusse il termine “distopia”, ma già nel 1818 Jeremy Bentham aveva coniato un sinonimo che avrebbe funzionato da matrice semantica: “cacotopia”. Un’utopia che sostituisce alla promessa di felicità eterna quella di infelicità certa, prossima ventura e talora già presente. A cosa si deve questo capovolgimento di tradizione letteraria e di concezione del tempo storico? Ha a che fare con il percorso compiuto dalla civilizzazione europea nei due secoli successivi alla grande cesura costituita dalla Rivoluzione francese? Si lega alle vicende subite dalla promessa democratica? Proviamo a cercare qualche abbozzo di risposta attraverso la riflessione di Aldous Huxley e George Orwell, probabilmente i due autori che più di ogni altro hanno decretato il successo letterario del genere distopico».
Ma anche se “1984”, il libro di Orwell, nel primo mese dell’èra di Trump ha registrato un aumento del 9.500 per cento delle vendite, secondo Peter Herman, che all’argomento ha dedicato un corso alla San Diego State University e che viene citato da Riccardo Staglianò in “Distopia canaglia” (sul Venerdì di Repubblica), le distopie odierne differiscono da “1984” e da “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley per il sospetto nei confronti del business: «Anche allora si temeva la tecnologia, ma non la sua dimensione commerciale. Oggi invece riflettono una forte sfiducia su questa quantificazione costante di quanto vale un essere umano desunto soltanto da ciò che lui o lei consumano».
“La bella burocrate” dell’americana Helen Phillips è una sorta di riflessione «sulla tendenza della tecnologia a registrarci come numeri piuttosto che come individui». La distopia – commenta la scrittrice in una intervista a ilLibraio.it – «a me piace, ma sembra che interessi anche molti altri lettori. Riscaldamento globale, estremismi politici, avanzamento tecnologico sono temi che fanno riflettere sul possibile futuro dell’umanità. La distopia permette di prevedere il futuro, o almeno alcune possibilità, e potenzialmente di evitare che si avverino».