L’esplicativo microcosmo di una classe. E un muro – uno dei tanti – a separare quegli ultimi cui fa spesso riferimento anche Papa Francesco da una generica – e più o meno anonima – cittadina ai confini d’Europa in grave crisi economica e nella quale criminalità e conflitti sociali sono all’ordine del giorno, inequivocabile sintomo di un clima di progressivo decadimento sociale, morale e culturale. A esacerbare drammaticamente i resti di una società civile martoriata è la presenza, appena fuori città, del cosiddetto Zoo, uno dei campi profughi più vasti del continente, la cui presenza provoca ulteriori conflitti all’interno e all’esterno del nucleo cittadino. Si presenta così un non-luogo ideale – evidentemente ispirato a Calais – in cui coesistono mal assortiti una comunità in difficoltà di valori e un centro di “accoglienza” per rifugiati che in quella “giungla” tutto possono tranne che integrarsi. “La Classe” di Vincenzo Manna è testo attuale – attualissimo – che parla di scuola, dell’utopia dell’insegnamento, di integrazione, di vecchi e nuovi olocausti. Perché – come insegna oggi una cattiva politica – è meglio volgere lo sguardo altrove per non vedere cosa accade al di là del muro o al di qua della cortina innalzata da giovani anime inquiete. Un testo solido che rifugge la retorica ma non scansa la riflessione sul quotidiano e la denuncia, nell’accezione più politicamente e socialmente impegnata del termine. Un gioiellino di scrittura che dà corpo e vigore alle storie eloquenti e verosimili di ragazzi che, come tanti, si trovano senza colpa relegati in un angolo di inferno dal quale è pressoché impossibile riuscire a districarsi. C’è tutto il disagio giovanile contemporaneo, tra conflitti e riscatto sociale, che vede al centro dell’azione un insegnante alla sua prima esperienza professionale e una classe di studenti difficili, arrabbiati e ai margini della società, che covano dentro rancore e diffidenza atti a farli scontrare l’un l’altro e col mondo esterno.
Ed è proprio la compagnia di giovani e talentuosi attori la forza di questo nobile esempio di teatro civile: non recitano, non scimmiottano, non interpretano con fare manierato da accademia. Semplicemente sono. Tutti credibilissimi, quasi come se le problematiche dei personaggi fossero davvero loro proprie. Crudo, violento, energico ma a suo modo poetico. In modo indirettamente proporzionale alla fama dei nomi in locandina, quella scarsa decina di esemplari di varia umanità è sufficiente a scuotere dal torpore della scena fissa e quanto mai meticolosa e realistica di Alessandro Chiti che propone un’aula anonima e polverosa, priva di strumentazioni tecnologiche e dotata esclusivamente di vecchi banchi, cattedra, lavagna, appendiabiti e televisore a tubo catodico. Tante le cartacce, sparse a macerare sul pavimento di un’aula nella quale non si ha voglia di imparare e dalla cui finestra si intravede un muro che separa – o meglio, protegge – dai rifugiati. Il tempo scorre piatto e stanco in uno dei quartieri più popolari della periferia cittadina, anche in una scuola che, attraverso i propri corsi professionali, dovrebbe avviare i giovani a un ipotetico utopistico lavoro. Mondi isolati e solitari, pianeti facenti parte della stessa galassia, che ruotano su se stessi senza avere forza attrattiva sugli altri. Ormai cristallizzati in un’immobilità che è diventata routine, i sei giovani sospesi, con obbligo di frequenza e recupero di crediti formativi necessari per il diploma di scuola professionale, diversi per provenienza e temperamento, inconsapevolmente reclamano un’opportunità: c’è Maisa (Cecila D’Amico), una ragazza musulmana timida, sopraffatta dalle ansie e coacervo inestricabile di angosce e paure che la paralizzano; Vasile (Edoardo Frullini) zingaro ribelle, istintivamente incline all’insubordinazione e causa dei suoi stessi mali, a tratti simpatico, che lascia intravedere uno spiraglio alla sua redenzione; Talib (Haroun Fall) riflessivo, vivacemente curioso e pacifico ragazzo di colore che sta con tutti, ma in fondo non ha nessuno; Nicolas (Brenno Placido) rabbioso, prepotente e violento, estimatore dell’arma bianca, probabilmente irrecuperbile; Arianna (Valentina Carli) estremamente critica, apparentemente sfrontata e sensuale ma incapace di reagire a un inconfessabile tormento interiore e a un abisso di fragilità al quale finisce per soccombere; Petra (Giulia Paoletti) ebrea sensibile, umbratile e misurata, forse l’unica in accordo empatico con il mondo e con la vita.
Spaccati di vita vari per etnia, confessione religiosa e colore oltre che per attitudini e carattere si ritroveranno improvvisamente concentrati in una ricerca storica che ha per oggetto altri individui come loro, come loro diversi, come loro distanti eppure così vicini. E l’unico raggio di sole sembra essere impersonato da quel Talib senza casa e senza famiglia, che spaccia per vivere ma che intellettualmente è il più sensibile, desideroso com’è di comprendere il prossimo senza cedere alla rabbia e di battersi per migliorare la propria esistenza. È forse la scelta – quella di vita su tutte – al centro della pièce: indifferenza reciproca, decadimento generalizzato e inarrestabile, atti di criminalità all’ordine del giorno funestano il quotidiano. E se lo “Zoo” ha assicurato posti di lavoro, dall’altro la prossimità con lo “straniero”, il “diverso” ha ulteriormente inasprito un tessuto sociale già logoro di sospetto e violenza. Da qui la soluzione estrema di innalzare una muraglia per ostacolare la fuga da questo lager del nuovo millennio. Nell’inospitale periferia suburbana il fatiscente istituto comprensivo professionale in tutto – dalle strutture agli studenti, al corpo docente – racconta un’amara rassegnazione, un’indolenza colpevole, un’alienazione senza barlume di speranza. “La classe” declina l’attualità con tutte le contraddizioni che la abitano, con l’incertezza che risiede in ogni – apparente – sicurezza, in ogni luogo comune. Dove sta davvero la verità? Cosa è veramente giusto? A cosa bisogna credere? Da che parte bisogna stare? Indaga sul degrado che infetta un tessuto urbano e suburbano in cui i ragazzi sono giovani adolescenti arrabbiati col mondo, ognuno preda delle proprie frustrazioni e delle proprie sofferenze, incapaci di agire e reagire alla vita e alle circostanze in modo costruttivo e produttivo. Che si lasciano vivere, apatici e menefreghisti, chiusi e istupiditi dal dolore. Sanno solo scalciare, urlare, distruggere e far del male a se stessi e agli altri. Urlano contro la vita, perché la vita ha fatto sempre lo stesso con loro, non hanno mai ricevuto carezze, ma solo indifferenza.
E c’è la scuola, quella stereotipata e distante, fredda e fatta di regole e di assunti insindacabili, rappresentata dal preside; e poi quella incarnata da Albert, straniero di terza generazione sulla trentina, laureato in Storia, professore potenziato che con pazienza e vocazione sa “sentire” i ragazzi, riesce ad ascoltarli e comprenderli, intuendo il dolore e la voglia di riscatto dietro la rabbia, che non giudica ma vuole capire. E così la missione dell’insegnamento – specie in una realtà così aspra – non è quella di somministrare un corso di recupero senza alcuna rilevanza didattica ma si esprime per “dogmi”, chiede scusa, riesce a toccare le corde più profonde e più vere dei ragazzi, facendoli sentire vivi, importanti, capaci e accettati per quello che sono e che hanno da offrire, operando in loro un cambiamento radicale, generando nei loro cuori una presa di coscienza, una consapevolezza che si trasforma in voglia di riscatto, alla ricerca di un modo più costruttivo di vivere la propria la vita e di rapportarsi al mondo. La scuola – l’intuizione di Manna ne è prova – non è solo nozionismo, ma è anche passione e trasmissione di valori e ideali, nel tentativo di rompere il mero appiattimento conseguente all’adempimento degli obblighi scolastici. Serve quindi abbandonare la didattica codificata (scontare la “condanna” con interminabili ore di ozio davanti allo schermo di documentari senza costrutto alcuno) e parlare in maniera appassionata davanti – e non dietro – alla cattedra. L’espediente è un concorso, un bando “europeo” – a riecheggiare un ideale e un sogno nel concreto oggi quasi dissolto – che ha per tema “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto”. Nessuno si salva da solo. Il dossier analizzato dagli studenti ha oggetto la testimonianza di un addetto alla documentazione delle persecuzioni politiche e delle nefandezze che i regimi, con la connivenza di alcune nazioni estere e nell’indifferenza pressoché totale delle comunità internazionali, perpetrano ai dissidenti nei paesi di origine e dai quali i rifugiati dello “Zoo” fuggono. Ma gli atti di violenza e disordine sociale, puntualmente imputati agli “ultimi”, innescano reazioni diversificate nei membri della collettività cittadina e nei più giovani. La ferocia delle guerre civili e la disumanità indignano e squarciano l’indifferenza ma alla ribellione, alla contestazione, alla presa di coscienza, alla determinazione nella progettualità fa da contraltare la paura, l’avversione, la soluzione più immediata a ogni conflitto: sei caratteri totalmente diversi, sei reazioni diametralmente opposte a un mondo esterno completamente sordo alle loro più basilari esigenze. Dedizione, onestà e fermezza riusciranno a conquistare la fiducia di gran parte della rumorosa compagine, guidata alla realtà disumana che li circonda e soprattutto alla ricerca della propria interiorità e delle potenzialità e specificità inespresse.
I temi trattati sono ben calibrati e integrati. Si intrecciano tre piani narrativi di grande potenza espressiva, spesso con linguaggio forte, potente ed efficace ma mai abusato. Prende corpo un terzo mondo che non è solo ideale, ma che ci mette di fronte a noi stessi, al modo di vedere e stare al mondo. La razza, l’immigrazione, l’accettazione (Nicolas rievoca le atmosfere cinematografiche di “American History X” di Tony Kaye), gli orrori, l’odio cieco e una paura che ottunde a ogni compassione ed empatia, che porta a rifiutare l’altro e genera in chi è rifiutato la stessa rabbia e lo stesso odio. Un punto di vista filtrato sul presente, sulla solitudine, sui diritti negati, sulle convivenze pensate impossibili. La potenza drammaturgia coinvolge con un’analisi lucida, accurata di una realtà crudele: “tutto quello che siete adesso lo sarete per tutta la vita”. Poiché la forza di un branco crolla non appena ci si ritrova soli con se stessi, gli studenti vengono in qualche modo scossi e dentro di loro si attua un nuovo processo di consapevolezza. S’impegnano a ricostruire le storie delle vittime di un Olocausto nuovo, contemporaneo, problematizzato da un felice esempio di realtà teatrale che riceve applausi al termine dello spettacolo (delicatamente il pubblico ha evitato qualsiasi genere di “rumore” durante la rappresentazione) ma che ne riceve uno ancora più grande dopo, imprimendosi indelebilmente nelle menti di chi lo ha visto. “L’uomo è un animale sociale” diceva Aristotele. E, infatti, questa è una classe umana, animale, specchio della società degradante che, tuttavia, può forse trovare una speranza di salvezza solo grazie a quella scuola che, seppur deficitaria e latitante, può garantire un’adeguata formazione culturale e civica. La salvezza non può arrivare per tutti ma il disagio portato in scena in modo crudo e limpido ci riguarda profondamente tutti e vive accanto a noi, implicita metafora di questi anni confusi. Al filone adolescenziale, con il suo universo complesso ed enigmatico, si unisce così quello scolastico, presidio fondamentale contro il degenerare della cultura e della civiltà, spesso incarnata in straordinari pedagoghi che riescono a trasformarsi in ancora di salvataggio per ragazzi altrimenti allo sbando. Binari sicuri su cui far correre una narrazione universale rivolta a un vasto pubblico.
È un testo con dinamiche forti, poetiche, che suscita emozioni e reazioni, talvolta violente e inattese, e in poco più di due ore (che volano via) ribadisce una volta di più il grande valore – artistico, pedagogico e sociale – della drammaturgia contemporanea. “La Classe” è il risultato di un progetto nato dalla sinergia di soggetti operanti nel settore della ricerca (Tecnè), della formazione (Phidia), della psichiatria sociale (SIRP) e della produzione di spettacoli dal vivo (Società per Attori), e specificatamente da una ricerca condotta da Tecnè, basata su circa 2.000 interviste a giovani tra i 16 e i 19 anni, sulla loro relazione con gli altri, intesi come diversi, altro da sé, e sul loro rapporto con il tempo, inteso come capacità di legare il presente con un passato anche remoto e con un futuro non prossimo. Gli argomenti trattati nel corso delle interviste hanno rappresentato un importante contributo alla scrittura drammaturgica. E così l’impegno civile si coniuga con un vivido e fisico teatro di prosa di ricercata fattura, acuta sintesi di molteplici e densi contenuti, spunti di riflessione, sentieri di indagine, sempre percorsi con attenzione a non smarrire il filo di una narrazione avvincente per lo spettatore. L’analisi psicologica è minuziosa, profonda, senza sconfinare mai nel cliché e regalando personaggi a tutto tondo, costellati di complessità, fragilità, ricchezze inestimabili che saranno svelate solo con l’incedere del racconto. Apparentemente schietto e disarmante – in realtà minuziosamente elaborato – misura la distanza tra la fissità del sapere scolastico e la complessa fluidità dell’immaginario moderno, fotografando l’abissale incompatibilità con l’idea che ormai è nell’equilibrio precario del microcosmo scolastico che si gioca l’unica vera lotta di “classe”. Se l’insegnante tenta di richiamare l’attenzione recitando l’elogio funebre di ciascuno degli alunni in occasione di un ipotetico funerale, la reazione è di un’immensa paura che li costringe a guardarsi dentro e a fare i conti con gli orrori delle loro vite, artefici come sono di tali malesseri. Le settimane trascorrono veloci, scandite dai ritmi rock e punk che tratteggiano l’intero spettacolo, segnate da luci e ombre, dal giorno e dalla notte. Il vuoto delle anime contrasta con la pienezza dei look aggressivi, capelli viola, berretti di lana calzati sugli occhi per nasconderne la disperazione, felpe troppo larghe o troppo strette per celare corpi che vogliono apparire e scomparire; la marijuana cerca, invano, di colmare la noia e l’inquietudine di un giorno sempre uguale al precedente, il sesso tra i giovani, acerbi e inesperti, viene rubato qua e là nel tentativo di trovare qualcosa che somigli anche solo approssimativamente all’amore. Sono poi tanti i non detti, perché il rapporto tra docente-allievo è e sarà sempre problematico e irrisolto. Impossibile semplificare questo mondo, darne una lettura a senso unico: non è compito del teatro ergersi a chiarificatore e risolutore di dilemmi indistricabili quali rabbia, agitazione, accuse, ingiustizie e lotte personali.
A livelli sempre diversi e diversificati la vigorosa drammaturgia viene plasmata con passione e sapiente perizia artigianale dalla lucida e tagliente regia di Giuseppe Marini, che va di pari passo col testo e lascia fuori fronzoli o effetti per dare spazio, voce e luce solo alle storie, al fine di coniugare tale adesione emotiva e l’attenzione minuziosa al dettaglio a un approccio maieutico nei confronti degli attori sul palcoscenico. Al contempo conduce lo spettatore passo dopo passo a ricercare dentro di sé la verità, chiamato in causa in quanto adulto troppo spesso sordo ai bisogni delle nuove generazioni multietniche e all’esame delle proprie responsabilità. Il tutto declinato in una narrazione dinamica, connotata da una scenografia didascalica e dai ben caratterizzati costumi di Laura Fantuzzo. Il contrappunto musicale di Paolo Coletta, puntuale e preciso, accompagna tutti i passaggi della narrazione amplificando le emozioni ed esacerbando gli stati d’animo. Il disegno luci di Javier Delle Monache scandisce la tensione sempre al limite dello sviluppo drammatico, concedendo allo spettatore quei momenti minimi di pace e di respiro dal ritmo incalzante degli scontri e degli incontri che avvengono sul palco. I dialoghi sono un altalenare continuo tra ritmi lenti, dovuti a una difficoltà di comunicazione e di comprensione dell’altro, e ritmi rabbiosi, incalzanti, violenti. Le parole, talvolta urlate, esprimono rabbia a frustrazione o altre volte vengono sussurrate, nei momenti più lirici, dove la comunicazione diventa davvero scambio, dove si prende coscienza di sé e dell’altro; momenti in cui gli attori stessi rompono gli schemi e vanno oltre gli spazi canonici del palco, avvicinandosi di più al pubblico per restituire i messaggi più intimi, le parole più vere con la stessa forza e immediatezza di quelle urlate. Si accompagnano quindi i gesti, con una fisicità intensa e sicuramente faticosa. Quando le parole non bastano a esprimere la rabbia, la frustrazione o la paura lasciano posto ai calci, alle spinte, ai pugni, agli oggetti lanciati. Ma ci sono anche gli abbracci nei momenti in cui le barriere cadono e ci si comprende, nei momenti in cui si arriva finalmente a uno scambio autentico, a una comunicazione proficua. Questo portale sulla realtà non segue le convenzioni e, con onestà intellettuale, propone situazioni particolari che stemperano il rischio di personaggi cliché più che archetipici, sfruttando al meglio la forte alternanza dei toni di testo e regia. Si riesce a cogliere sotto questo ritratto estremo quanto c’è di vero sul disagio e sull’isolamento di un’intera generazione grazie alla pregnanza di un linguaggio mimetico e fisico duro e diretto.
I personaggi sono costruiti con cura, carichi di un vissuto spesso difficile che si manifesta nella violenza, nella paura o nel silenzio, impetuosi ed emozionanti nel dar sfogo al dolore di chi deve sopravvivere nella giungla, anche se urbana. I giovani interpreti sanno muoversi in scena con ferocia, aggressività e intensità, colorando la prova – ben messa a fuoco – in ogni accento e in ogni sguardo, restituendo una totalizzante partecipazione emotiva alle vicende narrate e uno studio attento delle psicologie. Una spanna sopra tutti si erge Claudio Casadio, nelle vesti del Preside, abile nel disegnare un personaggio cinico, indifferente e insofferente: nell’interesse della scuola gli studenti bisogna obbligatoriamente promuoverli, per non ritrovarseli anche l’anno successivo (ah, il famoso pezzo di carta!). Albert di Andrea Paolotti è un uomo che si trascina dietro la propria dose di dolente esistenza, salvo poi lasciare il posto in età adulta a un vuoto profondo, forse dettato dall’impotenza a cambiare la realtà circostante. Cerca nel confronto con i suoi alunni un riscatto, cerca un senso, un significato, vuole fare qualcosa che possa operare un cambiamento vero, una redenzione per la sua vita e per quella dei suoi studenti. La sua missione umana di speranza come educatore è la stessa dei tanti docenti ai quali importa che i ragazzi “difficili” non si abbandonino a un destino già scritto, tentando di aprir loro una via verso la ricerca e il rifiuto di ogni immobilismo esistenziale. Convincente nella sua mitezza, Paolotti – forse a tratti un po’ dimesso – incarna alla perfezione un’autorità bonaria che invita al rispetto reciproco, trasformando un semplice esperimento morale e intellettuale nell’esplicitazione della sofferenza e nell’abiura della legge del più forte che domina la giungla. Con un intenso e feroce Brenno Placido, particolarmente sensibili le interpretazioni di Edoardo Frullini e Giulia Paoletti.
Il riferimento ad abitudini e caratteristiche della vita delle galline, chiosa alla vicenda degli alunni – definiti tali nei tre brevi monologhi di Casadio – esprime l’immagine del branco di animali considerati privi di una forte razionalità ma che, con quelle ali minuscole sul corpo tozzo, potrebbero arrivare sulla luna in 27mila ore (tre anni circa) se solo fossero spinti dalla giusta motivazione. Vorrebbero volare ma non riescono a farlo, eppure le gambe forti sono ben piantate a terra. L’immagine – tra la fantasia e la realtà – è poetica metafora del microcosmo, che vive agendo sull’onda di emozioni inarrestabili, spesso violente, ma proprio in queste ultime trova paradossalmente la ratio della propria esistenza. O sopravvivenza. E Viva il teatro che si prefigge l’intento di raccontare con onestà il reale, con tutte le sue violente disarmonie e il meraviglioso coraggio di provare a cambiarle, senza infingimenti o intenti moralizzatori o didascalici in una distopica – ma forse poi non così artefatta – polveriera di emozioni.