«Accorrete pubblico, gente grandi e piccoli, al suo numero magico, vedrete mille e più incantesimi. Piano non spingetevi, costa pochi centesimi. Volevo diventare un pifferaio, stregare il mondo ed ogni sua creatura, crescere spighe di grano a gennaio» (da “Acqua dalla Luna”).
Non sarà gennaio per pochi giorni, ma febbraio (da martedì 5 a sabato 9), tuttavia il mago Claudio Baglioni è riuscito a far crescere spighe di grano in inverno. L’anno scorso, alla vigilia di un voto politico cruciale per il Paese, è stato il protagonista del Festival più quirinalizio della nostra storia. Interprete di pezzi acclamati, già consegnati alla gloria della critica e del gusto. Non canzoni, ma parti della nostra carta fondamentale della musica e del sentimento. Per l’allora “dittatore” artistico fu un successo. Di applausi. Di ascolti. Di consensi. L’esito anticipò quello che sarebbe stato il responso delle urne: la vittoria di una coppia, Fabrizio Moro ed Ermal Meta, come sarebbe accaduto un mese dopo con il governo gialloverde di Luigi Di Maio e Matteo Salvini. E il divo Claudio si conquistò la riconferma alla guida dell’evento musical-televisivo più atteso e più seguito della stagione.
Con quell’aria sorniona, da gatto imbalsamato, con quel suo buonismo alla Fazio, quest’anno Baglioni tenta il bis adeguandosi al nuovo clima politico. S’investe del ruolo di “dirottatore” artistico e si avvia – anche lui, democristiano di vecchia data – sulla via del cambiamento. «Un’operazione di avanguardia e non di retroguardia» l’ha definita alla balilla. Perché bisogna rifuggire dalla metafora sanremese. Qui all’Ariston non rappresentano, non imitano, non trasferiscono, appunto, la cronaca in metafore. Al Festival inventano, danno la linea, indicano strade.
Un Festival autarchico. Anche un po’ sovranista. All’insegna di “prima gli italiani”. Anzi, solo gli italiani. Dimenticatevi le apparizioni di Bruce Springsteen, U2 e Madonna. Niente più lunghe interviste con Sharon Stone o il tè sorseggiato da Hugh Grant sul palco nel 2005 per il modico cachet, si disse allora, di quasi 500mila euro. Con Baglioni, se l’artista straniero entra al Teatro Ariston deve calarsi nello spirito del Festival e rendere omaggio alla canzone italiana, come già accadde l’anno scorso con Sting, che intonò “Muoio per te” di Zucchero, e per James Taylor, che accennò “La donna è mobile”.
I superospiti sono tutti italiani: Andrea Bocelli con il figlio Matteo, Riccardo Cocciante, Elisa, Giorgia, Antonello Venditti, Alessandra Amoroso, Luciano Ligabue, Eros Ramazzotti, Fiorella Mannoia, Marco Mengoni. Ma anche le indiscrezioni su quelli che potrebbero aggiungersi parlano italiano: Claudio Santamaria, Serena Rossi, Michele Riondino, Laura Chiatti. Baglioni avrà anche litigato (e poi fatto pace) con il vicepremier e ministro degli Interni, Matteo Salvini, sulla visione del fenomeno migratorio, ma è innegabile che il direttore artistico stia per varare il Sanremo con l’impostazione più “sovranista” degli ultimi decenni.
Un Sanremo fedele alla Carta costituzionale. Che recita. «Festival della canzone italiana». Si difende Baglioni. «Il nome di Sanremo è un marchio, un contenuto, importante nel mondo» spiega. «Qualche ospite straniero ci sarà… Tom Walker (ma lo porta Mengoni, nda), Luis Fonsi (con Eros Ramazzotti, nda)… Ma oggi una star internazionale costa troppo per le casse della Rai». L’internazionalità, sostiene il direttore artistico, «è nel nome e negli artisti, come Andrea Bocelli o Riccardo Cocciante».
Sovranista, ma non populista. Semmai nazional-popolare, o popolar-nazionale, come tiene a sottolineare Baglioni. Sanremo è l’ultimo vittorioso fronte della tv generalista, l’appuntamento che unisce il Paese, che riporta il televisore a essere il focolare domestico attorno al quale si stringe la famiglia intera. Difficile impresa, tra smartphone, computer e social. E, in fondo, c’è anche chi lo detesta, lo trova fuori tempo, noioso e cerchiobottista, privo di nerbo e significato. Senza dubbio però ferma, o almeno rallenta, le macchine. In questa settimana di febbraio raccoglie l’attenzione mediatica e di costume. E soprattutto fornisce un punto di vista nazional-popolare sulle cose. Un approccio che un tempo disdegnavamo come superficiale o poco impegnato ma che oggi – in assenza di un’opposizione palpabile, di un’idea alternativa di società, di un segnale di vita che non sia gialloverde – potrebbe costituire l’unico antidoto al populismo dei Salvini, Di Maio e compagnia.
Un Festival che vuole riportare l’armonia nel Paese, ribadisce Baglioni. Quindi niente politica, ripete davanti al direttore di Rai1, Teresa De Santis, che lo ha appena assolto dall’accusa di conflitto d’interessi (ma a ridosso dell’Ariston campeggia un tapiro d’oro gigante che Valerio Staffelli intende consegnare a Baglioni). Alla neo-direttrice il galante Claudio offre un mazzo di rose rosse e uno spettacolo tranquillo, all’insegna della leggerezza e dell’ironia. Niente politica, «perché questo non può essere il luogo del casino, del caos, dove si può fare tutto» dichiara, avvisando così gli Ncc, ovvero i conducenti delle auto a noleggio che vorrebbero marciare su Sanremo per protesta contro il governo. Niente polemiche, solo canzoni, «perché io resto il sacrestano del Festival, affinché sia una messa cantata, ma cantata benissimo. E non voglio che una polemica faccia crollare tutto il lavoro svolto».
Nella sua indole di democristiano e mattarelliano, l’uomo dei record, quello che capisce che le banane sono mature solo guardandole sotto il panama bianco, apre le porte dell’Ariston alle nuove generazioni musicali, affidando loro il compito di abbattere il tempio del cuore, dell’amore e della tradizione. Non solo. Alcune canzoni in gara sono spesso polemiche con le politiche governative, soprattutto sul fronte migranti: dalla rock ballad “L’amore è una dittatura” degli Zen Circus, che fa amara ironia sui «porti chiusi», al pop rock de “I ragazzi stanno bene” dei Negrita, che cantano del «mondo dei confini e passaporti, dei fantasmi sulle barche e di barche senza un porto, come vuole un comandante a cui conviene il gioco sporco». Un “comandante” che a molti è sembrato un riferimento a Salvini.
Tanti i debuttanti all’Ariston. Rapper, trapper, cantautori, rocker, soulman, indipendenti, tra i 24 artisti in gara. Per rivoluzionare il rito, per aggiornare i modelli, per rinnovare la platea sanremese, per lanciare la sfida (finale?) alla melodia italiana, ai Claudio Villa e alle Orietta Berti 2.0. La gara canora quest’anno rappresenterà un confronto generazionale. Incruento, perché, come sperimentato lo scorso anno, non ci saranno le eliminazioni. Ma indicativo per le sorti della canzone italiana e di un Festival alla vigilia della edizione dei 70 anni. «Sanremo è una locomotiva della musica italiana, non certo un vagone che va trainato» sostiene il capotreno.
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Che sia un treno che corre ad alta velocità lo stabiliranno gli ascolti. Che, come ogni anno, se non interverrà qualche fatto eclatante di cronaca, saranno “drogati” dall’assenza di controprogrammazione da parte della concorrenza. E, nel caso in cui le canzoni non siano gradite dal pubblico, c’è assicurata la spalla comica con i due “valletti” o co-presentatori: «fratello Sole e sorella Luna» Claudio Bisio e Virginia Raffaele, elementi di una edizione «che sarà un grande spettacolo di luci e suoni», come annuncia Baglioni che a Sanremo si è portato anche il corpo di ballo (39 danzatori) del suo tour “Al Centro”.
«Accorrete pubblico, gente grandi e piccoli, al suo numero magico, vedrete mille e più incantesimi…».