A dodici anni dal trionfo al Festival di Sanremo con la toccante canzone “Ti regalerò una rosa” che affrontava il tema dei malati mentali, Simone Cristicchi torna per la quinta volta sul palco dell’Ariston cercando lo stesso effetto con una preghiera laica intitolata “Abbi cura di me”.
«In tutti questi anni ho lavorato sulla memoria di diversi fatti storici. Negli ultimi tempi, invece, è stato il mio mondo interiore e invisibile a pulsare e richiedere attenzione», racconta, negando di essere tra i favoriti per la vittoria (il brano in poche ore ha registrato oltre 100mila stream su Spotify e oltre 300mila visualizzazioni su YouTube). Si sente fuori gioco, il Festival per lui non è altro che una parentesi nella sua tournée teatrale, una dimensione che si è costruito negli anni e nella quale sta benissimo.
Molto teatrale è anche “Abbi cura di me”, una preghiera francescana, una sorta di inno al prendersi cura dell’altro: «Un Cantico delle creature 2.0? Mi piace questa definizione» sorride. «Nei versi della canzone, ricorre il tema millenario dell’accettazione, della fiducia, dell’abbandonarsi all’altro da sé, che sia esso un compagno, un padre, una madre, un figlio o Dio – racconta l’autore romano – Nelle mie intenzioni, questo brano vuole essere una preghiera d’amore universale, una dichiarazione di fragilità, una disarmante richiesta d’aiuto».
Un tema al quale Cristicchi accenna anche nello spettacolo teatrale “Manuale di volo per uomo”. «È ambientato in un quartiere di periferia dove regnano materia e spirito: è un sunto di quello che può essere il mio credo. Accanto vi abbinerò il documentario “Happy, una indagine sulla felicità”: sono andato in giro a chiedere a bambini, scienziati, filosofi, artisti, uomini di chiesa: “Dove trovi la felicità oggi nel mondo e quando ti senti felice?”. La risposta migliore è di Totò: “Sono attimi di dimenticanza”».
Una gioia francescana è quella che cerca Cristicchi: «È essere felici anche quando le cose vanno male. La felicità è un elettrocardiogramma, con picchi che poi sfumano. La gioia è lo stato di grazia dei santi, molto più profondo, frutto di ricerca. Io sono molto felice e mi sento fortunato, perché riesco a vivere della mia passione».
“Abbi cura di me” dà il titolo anche a un progetto discografico che ripercorre tutta la sua carriera partendo dai giorni nostri fino ad arrivare agli esordi nel 2005 con il tormentone “Vorrei cantare come Biagio”. Un viaggio alla scoperta e alla riscoperta del mondo versatile e dalle mille sfaccettature di questo eclettico artista, che ha fatto della sottile ironia e della leggerezza, unite alla riflessione profonda, la sua cifra stilistica. «Io cerco sempre la leggerezza anche trattando temi molto pesanti, cercando di stupirmi ancora. Non c’è peggior peccato di non stupirsi più di niente. Cerco di tenere viva la curiosità fanciullesca e bambina a modo mio. Lo scopo principale dell’arte è quello di condividere con gli altri le storie. Ho visto il documentario su papa Francesco di Wim Wenders e sono rimasto molto colpito dalla semplicità e dalla leggerezza con cui il Pontefice riesce a parlare a tutti: lui è un sermone vivente».
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