Timida grazia, gentile eleganza e disinvoltura discreta. Come si fa a non voler bene a Milena Vukotic? Una protagonista senza protagonismo. Si affaccia dalla porta del camerino, in teatro, leggera ed eterea come una creatura felliniana. Appare così come lo schermo l’ha sempre presentata. Un trucco lieve, una figure esile, i modi cortesi, una personalità schiva e riservata, due occhi grandi che hanno conosciuto il mondo e sembrano in piena armonia con esso. Sotto quel caschetto corto e rosso che tanto la ringiovanisce c’è tutta l’esperienza di chi ha lavorato con i più grandi: sullo schermo, sulle assi di un teatro di prosa o nel balletto. C’è quella della scuola all’Opéra di Parigi, quella nella compagnia di Roland Petit e del marchese de Cuevas, poco prima dell’arrivo di Nureyev. C’è quella di chi ha esordito con Ferrero e Damiani. Quella di chi è stata intima amica di Fellini e scoraggiata da Renato Castellani, per poi lavorare con Strehler, Enriquez, Missiroli e Poli. Milena Vukotic probabilmente dovrebbe essere in credito con la vita e con le stesse arti che l’hanno resa celebre. C’è anche quel filo di delicata umanità di chi avrebbe potuto essere tanto – molto altro – nonostante una carriera già ricca, duratura e gratificante. C’è la casalinga Pina Fantozzi che prova più stima che amore nei confronti del marito, dimessa e cordiale com’è ma gelosa. E, soprattutto, indipendente. C’è la nonna Enrica di “Un medico in famiglia”, attenta al bon-ton e alla formalità, che finisce per innamorarsi del Nonno Libero di Lino Banfi. Sullo schermo ha sposato anche il Conte Raffaello Mascetti di Ugo Tognazzi ma di film la Vukotic ne ha fatti quasi un centinaio, da “Gran Bollito” di Bolognini a “Il fascino discreto della borghesia” di Buñuel. Già Elisabetta in “Giulietta degli spiriti”, Emanuela ne “La Terrazza”, è stata Alice nello sceneggiato Rai ispirato ai romanzi di Lewis Carroll ma anche la prostituta di “Bianco, rosso e Verdone”. Dopo la discussa nomina di Lino Banfi all’Unesco, Milena Vukotic meriterebbe di essere almeno Segretario Generale dell’Onu. Il minimo che si deve a una donna mite che, da decenni, è esempio di moglie, madre, nonna. Almeno sullo schermo. Pina, Enrica e via discorrendo. Donna e artista amatissima da una vasta fascia di pubblico.
Milena Vukotic ha lavorato con nomi leggendari del cinema e del teatro ma viene abitualmente ricordata nei panni della dimessa signora Pina di fantozziana memoria. Ha mai sentito mortificata la sua femminilità da questa costante associazione cucita addosso?
«Sinceramente non ho mai percepito questa sensazione in modo così tangibile. Io amo recitare e, nel momento in cui arriva un personaggio, lo faccio mio. Nel caso specifico, l’associazione al personaggio si è manifestata perché i film con Paolo sono stati quasi una decina e tutti di grandissimo successo. Paolo era un genio e ha inventato una maschera universale unitamente ad altre intorno a quella del ragioniere. Sono sicura che lui rimarrà nella storia del cinema e avrà sempre la compagnia dei personaggi della signora Pina, di Mariangela di Plinio Fernando, della signorina Silvani di Anna Mazzamauro e del Ragionier Filini di Gigi Reder. Il ruolo mi è stato stretto solo nella misura in cui, in ambito lavorativo, magari hanno finito per inserirmi in uno schema o se, per strada, vengo dalla gente cristallizzata unicamente in quel personaggio. Ho fatto anche tanto altro e di conseguenza non ho mai avvertito un limite nella signora Pina».
Villaggio come le chiese di interpretarlo?
«Sono subentrata a Liù Bosisio, nel terzo film della serie (“Fantozzi contro tutti”) che era anche il primo firmato da Neri Parenti. Paolo mi ha da subito detto di liberarmi da eventuali velleità femminili o di bellezza. Ammetto che è stato un gran bel gioco, come dovrebbe sempre essere. Il lavoro ci impone di farlo, di indossare continuamente nuove maschere. Alcune volte riesce, altre magari un po’ meno».
Ma la signora Maura è mai stata almeno un po’ gelosa della reverentissima Pina?
«Naturalmente no, ci mancherebbe! C’è sempre stato un bel legame con la famiglia. Abbiamo anche avuto modo di frequentarci fuori dal set e insieme con Federico Fellini vennero a cena a casa mia, dove io sono sempre stata davvero mal organizzata. A Paolo mi ha unito un grandissimo affetto e, anche se negli ultimi anni non abbiamo lavorato più insieme, capitava di sentirci al telefono. Quando ha cambiato casa gli promisi che sarei andata a trovarlo, sempre sinceramente desiderosa di farlo. Ci siamo anche telefonati per l’ultimo dell’anno e poi lui qualche mese dopo ci ha lasciati. Non aver mantenuto fede alla promessa è rimasto un grande, grandissimo rimpianto. Paolo ha avuto un ruolo molto importante nel mio percorso».
Com’era Villaggio nella vita? Aveva davvero un carattere così difficile come si suole dire?
«Indubbiamente non era una persona facile. Ovviamente non mi riferisco ai nostri rapporti, che erano più che amichevoli. Probabilmente aveva qualcosa dentro di sé che non consentiva a tutti di comprendere pienamente come fosse e cosa pensasse. Oggi, ripensando a lui, lo definirei un genio misterioso».
Fantozzi ha ritratto un’intera epoca…
«Paolo, come Totò, ha inventato e portato in scena una maschera unica. Oggi sono rimasti solo grandissimi interpreti, come ad esempio Valerio Mastrandrea, per il quale ho recitato nel film “Ride”, o ancora Silvio Orlando che ho rivisto da poco in “Pierino e il lupo” in memoria di Claudio Abbado. A me, invece, sarebbe piaciuto interpretare il ruolo di femme fatale. Sarebbe stata un’occasione per reinventarmi e riscoprirmi in una veste diversa da quella che sullo schermo ho indossato di frequente».
Lei, figlia d’arte, ha avuto trascorsi eccellenti nella danza ed esordi insoliti all’inizio del percorso, prima di approdare sullo schermo
«Ho dei trascorsi da ballerina classica professionista. Già a Parigi avevo intrapreso dei corsi di recitazione. Vidi “La Strada” di Fellini e fu un colpo di fulmine. Poi ho un legame fortissimo con la città di Roma, dove abitava mia madre. Oggi piange il cuore a vedere una città completamente deturpata ma è ugualmente così bella da esercitare un fascino unico. Trovo desolante assistere a una situazione davvero imperdonabile. Ogni volta che ritorno a casa in aereo e guardo la città dall’alto però mi sembra di assistere a un miracolo».
Tra i primi lavori televisivi un ruolo a volte meno ricordato è quello della sorella Virginia, fidanzata con il socialista avvocato Maralli, ne Il giornalino di Gian Burrasca?
«C’era un cast davvero memorabile. Oltre a una meravigliosa Rita Pavone, tra gli altri, anche Valeria Valeri, Ivo Garrani, Bice Valori, Arnoldo Foà e Sergio Tofano. Poi la musica di Nino Rota con gli arrangiamenti di Luis Bacalov e una delle migliori regie di Lina Wertmüller. Era una televisione d’altri tempi e gli sceneggiati erano di altissimo livello. Si faceva un certo numero di pose al giorno, non si poteva sforare e non c’era possibilità di rifare una scena fino allo stremo».
Il pubblico la conosce per personaggi dal carattere mite. Milena Vukotic è davvero così o finge?
«Mai fidarsi delle apparenze! Ho avuto una vita abbastanza anomala. Poi tutto è relativo… Probabilmente la mia e tutto il mio percorso sono stati molto diversi da quello che normalmente dovrebbe essere la normalità».
Attualmente è in teatro con “Le sorelle Materassi” di Palazzeschi. Preferisce recitare in teatro o per il cinema?
«Ugo Chiti l’ha praticamente adattato su di noi. Con questo allestimento adesso siamo oltre le 200 repliche. I grandi artisti solitamente dicono che il teatro istituisce un legame unico con il pubblico e cose del genere. A me il cinema invece dà tantissimo. La televisione è diversa, legata com’è a tempi stretti, alla serialità, a metodi più meccanici. Per il grande schermo ho avuto la fortuna di lavorare con Federico Fellini, Luis Buñuel, Andrej Tarkovskij e Nagisa Ōshima senza pensare poi a Scola, Monicelli, Risi, Bolognini, Zeffirelli e Lattuada. Amo particolarmente l’atmosfera del set, anche se contraddittoria e all’insegna del finto. E devo dire che, anche da spettatrice, il cinema esercita su di me una presa diversa rispetto al teatro. Eccezion fatta per quello di giganti come Strehler o Peter Brook».
Pensa di essere stata celebrata abbastanza come attrice?
«Non saprei. A me quando la gente applaude o mi riconosce sembra sempre un regalo. Certo, ogni artista vorrebbe sempre andare oltre, fare qualcosa di più grande e memorabile. Non è mai troppo tardi. Io sto sempre aspettando. Ma devo anche dire che ogni giorno mi sento molto fortunata di aver fatto quello che amo profondamente. Sono nata in una famiglia di artisti e non credo avrei potuto fare qualcosa di diverso».
Quanto ha influito la sintesi di culture così varie e diverse nella sua formazione?
«Tantissimo, senza dubbio. Proprio in questi giorni da spettatrice, davanti la tv, mi sono immersa nelle commemorazioni per la Shoah. È importante il ricordo, soprattutto di questi tempi. Sembra che certi eventi si stiano ripetendo. Come corsi e ricorsi storici è incredibile che certi fenomeni si verifichino di nuovo. Il razzismo e la discriminazione rievocano vecchie ideologie e comportano paura e diffidenza».
Un altro suo celebre coniuge televisivo, Lino Banfi, è stato nominato membro della commissione italiana all’Unesco
«Con Lino c’è un connubio che dura da più di vent’anni. Non riesco però a immaginarmelo come figura politica. Il suo impegno è quello di riuscire a far sorridere le persone. Poi un incarico politico può essere portato avanti anche senza dover necessariamente fare discorsi o immettersi in dinamiche e grovigli che possono risultare compromettenti. La sua missione probabilmente è quella di portare allegria».