La notte degli Oscar. La più lunga per Hollywood e per il cinema tutto. Quella in cui un abito di tulle sul red carpet conta più di una statuetta. Quella in cui gli impavidi cinefili di tutto il mondo, noncuranti del jet leg, trascorrono insonni le ore, trascinandosi come zombie fino all’alba per il gusto di commentare film e performance attoriali che – i più – non hanno ancora neppure visto. Ma le nomination, mai quanto quest’anno, hanno portato a previsioni più che nebulose e l’esito, tutt’altro che scontato, era dato comunque favorevole a quel ‘Roma’ di Alfonso Cuarón che, con le sue dieci candidature, è chiaro messaggio politico sul muro che Trump vorrebbe costruire a ridosso del confine col Messico e primo alfiere di quel Netflix fido alleato di Venezia e tanto infido alla Croisette. Le nostre considerazioni fatte in merito a meno di una settimana dalla data tanto attesa si sono rivelate esatte in ben 19 delle 24 categorie, salvo sorprese e alternative a spuntarla clamorosamente. Si è aperta con un’esibizione dei Queen la 91esima edizione della cerimonia di consegna degli Academy Awards. La band, con il frontman Adam Lambert, ha infiammato il Dolby Theatre di Los Angeles prima con ‘We will rock you’ e poi con ‘We are the Champions’, accolte da una standing ovation del pubblico in sala. E il ritratto di Freddie Mercury ha reso omaggio all’artista scomparso e protagonista, con il volto dell’attore Rami Malek, di ‘Bohemian Rhapsody’. Poi sul palco appaiono insieme Maya Rudolph, Tina Fey e Amy Poehler che affrontano di petto tutte le polemiche che hanno contraddistinto la vigilia: «Non siamo le presentatrici, ma rimarremo qui fino alla fine facendo finta di esserlo. Il Messico non pagherà per il muro e non presenteremo premi durante gli spot, piuttosto presenteremo degli spot durante la premiazione».
La prima statuetta è per la migliore attrice non protagonista. Regina King, 48 anni, per ‘Se la strada potesse parlare’, durante il suo discorso di accettazione ha reso omaggio allo scrittore dal cui romanzo del 1974 è stato adattato il film di Barry Jenkins: «Baldwin ha fatto nascere questo bambino, lo ha cresciuto e sostenuto. Io sono un esempio appropriato di quanto l’amore e il sostegno di una mamma può fare. Grazie per avermi cresciuta nell’amore» ha aggiunto poi rivolta alla madre, commossa in sala. Subito dopo Jason Momoa e Helen Mirren annunciano la vittoria del documentario ‘Free Solo’ di Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi, che la dedicano a chi non ha paura di sfidare l’impossibile: il film racconta infatti l’impresa nel climbing, senza corde né protezioni, di Alex Honnold lungo la via Freerider su El Capitan, nel giugno 2017. Va a Greg Cannom, Kate Biscoe e Patricia DeHaney la statuetta al miglior trucco e alle migliori acconciature per la straordinaria trasformazione di Christian Bale nel protagonista Dick Cheney in ‘Vice – L’uomo nell’ombra’. A ricevere da Melissa McCarthy e Brian Tyree Henry il premio per i migliori costumi è stata Ruth Carter, alla sua terza nomination, per ‘Black Panther’: «È stato un lungo viaggio, ce l’ho fatta» commenta, poi ringrazia Spike Lee con il quale ha lavorato in ‘Malcom X’ e la madre 97enne rimasta nel Massachusetts, «la mia prima, vera supereroina». Il cinecomic si aggiudica anche l’Oscar, presentato da Jennifer Lopez e Chris Evans, per la migliore scenografia grazie a Hannah Beachler e Jay Hart. Lei, commossa, legge il discorso dallo smartphone e ringrazia Ryan Coogler «per avermi fatto una migliore artista e avermi offerto una nuova visione. Quando pensi che sia impossibile ricorda questo, io ho fatto del mio meglio e il mio meglio era abbastanza».
Il premio per la miglior fotografia è andato per ‘Roma’ ad Alfonso Cuarón, che ha dovuto mettersi dietro la macchina da presa al posto del suo grande amico Emmanuel Lubezki detto Chivo: «Sono stato forgiato dal ricordo dei grandi maestri del cinema – ha commentato il regista messicano – Nell’ufficio di Billy Wilder c’era un cartello che diceva: “Cosa avrebbe fatto Lubitsch?”, io mi domandavo: “Cosa avrebbe fatto Lubezki?”. Grazie al Messico, alla mia famiglia». I premi per il suono (montaggio sonoro e sonoro) sono andati al lavoro fatto da John Warhurst e Nina Hartstone, Paul Massey, Tim Cavagin e John Casali, che hanno saputo armonizzare le performance dei Queen originali con altri musicisti e con l’interpretazione di Rami Malek e compagni. Presenta il premio per il miglior montaggio Michael Keaton e il vincitore è John Ottman che porta a tre il numero di statuette di ‘Bohemian Rhapsody’. Sono invece Charlize Theron – intensa e con un inedito carré bruno – e Daniel Craig ad annunciare i candidati a miglior attore non protagonista: the winner is Mahershala Ali per la sua interpretazione del pianista nero Donald Shirley in ‘Green Book’ di Peter Farrelly. Il divo 45enne conquista così il suo secondo Oscar in tre anni, dopo essere stato consacrato nel 2017 per il ruolo in ‘Moonlight’, uguagliando il record dell’unico altro afroamericano ad avere vinto due Oscar, Denzel Washington. Ali ha ringraziato l’amico Viggo, il regista per aver dato spazio agli attori e alla loro creatività e poi ha ringraziato la nonna «che è stata la mia eroina, per tutta la mia vita. La donna che mi ha detto che avrei potuto fare qualunque cosa mi fossi messo in mente di fare, la donna che mi ha insegnato che, se non riesci la prima volta, devi provare di nuovo e di nuovo sino al successo, la donna che mi ha insegnato a pensare positivo».
La statuetta per il miglior film di animazione va a ‘Spider-Man – Un nuovo universo’, diretto da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman che ringraziano le famiglie «rimaste con noi per quattro anni su questo progetto». Bello, originale, con una grafica interessante e una sceneggiatura solidissima. Più per bambini mai cresciuti che per bambini veri e propri. C’è anche un po’ di Italia in questo premio: nel team dei disegnatori del film c’è anche Sara Pichelli, di Porto Sant’Elpidio, classe 1983, ideatrice di Miles, il giovane “super” che prende il testimone di Peter Parker e, punto dal ragno radioattivo, ne sviluppa i noti poteri. ‘Bao’ di Domee Shi e Becky Neiman-Cobb si aggiudica quella per il miglior corto animato con un gioiellino Pixar che racconta la storia di una donna cinese che soffre di solitudine e depressione, e ottiene una seconda occasione per dare spazio al proprio istinto materno quando una delle sue creazioni culinarie prende vita. ‘Period – End of Sentence’ strappa la statuetta per il miglior corto documentario – disponibile su Netflix – raccontando la vita e le difficoltà quotidiane di Sneh e delle altre sei donne, tutte tra i 18 e i 31 anni, che in una piccola fabbrica creata due anni fa dalla Ong Action India, producono assorbenti sanitari femminili. Una delle due registe, Melissa Bertonche salita sul palco con Rayka Zehtabchi, ha esclamato: «Non ci posso credere: un film sulle mestruazioni ha vinto l’Oscar». Sono, infatti, ancora tanti i pregiudizi che esistono nell’India rurale nei confronti del periodo mestruale femminile. Annunciato da Angela Bassett e Javier Bardem (che in spagnolo ha ricordato come non esista «nessun paese in grado di costruire muri e porre barriere che possano contenere il talento»), il miglior film straniero è ‘Roma’ di Alfonso Cuaròn che ha detto di essere cresciuto «vedendo film stranieri come ‘Quarto potere’, ‘Il padrino’, ‘Lo squalo’. Facciamo tutti parte della stessa emozione e dello stesso oceano». È la nona volta che il Messico ottiene delle nomination e la prima che vince in questa categoria. Nulla da fare per ‘Cold War’, il film polacco in bianco e nero, love story disperata e strepitosa, che ha conquistato ben tre nomination. Sara Paulson e Paul Rudd presentano l’Oscar per i migliori effetti visivi vinto da Paul Lambert, Ian Hunter, Tristan Myles e J. D. Schwalm per ‘First Man – Il primo uomo’, grande escluso dell’edizione, mentre il miglior cortometraggio va a ‘Skin’ di Guy Nattiv e Jaimie Ray Newman. Samuel L. Jackson e Brie Larson presentano la migliore sceneggiatura originale a Nick Vallelonga, Brian Currie e Peter Farrelly per ‘Green Book e a C. Wachtel, D. Rabinowitz, K. Willmott quella non originale di ‘BlacKkKlansman’: «io rendo omaggio a tutti i nostri antenati per aver costruito questo Paese – ha detto il regista – le elezioni 2020 sono dietro l’angolo, ricordiamocelo, possiamo fare una scelta di amore e non di odio» e, al primo Oscar dopo quarant’anni di carriera e a 19 dalla nomination per ‘Fa la cosa giusta’, corre sul palco e rivolge un pensiero alla memoria di sua «nonna che era stata una schiava. Rendo omaggio a lei e ai nostri antenati, grazie al loro sacrificio siamo qui, grazie per aver costruito il Paese e sopportato il genocidio dei nativi».
Nella categoria della migliore colonna sonora primeggia Ludwig Goransson con ‘Black Panther’ mentre è la canzone originale ‘Shallow’ (musica e testi di Lady Gaga, Mark Ronson, Anthony Rossomando e Andrew Wyatt) a regalare il successo ad ‘A Star Is Born’. Bisognerebbe avere un bidone dell’immondizia al posto del cuore per non emozionarsi durante il duetto. Gaga sale sul palco ed è subito commozione. Un ringraziamento particolare va alla famiglia e a Bradley Cooper: «Non avrei mai potuto cantare questa canzone senza di te». E, tra le lacrime, si rivolge al pubblico con un discorso d’ispirazione, che commuove tutti: «Voi che siete seduti sul vostro divano, è stato il frutto di un grande lavoro. Ho lavorato tanto e per così tanto tempo, non è questione di vincere: se hai un sogno combatti per realizzarlo, non importa quante volte verrai rifiutata». Il segreto del suo successo è la disciplina e la capacità di rialzarsi dopo i no, dopo gli insuccessi. E nell’emozionante tributo a chi è venuto a mancare durante l’anno appena trascorso, con il video In Memoriam, vengono ricordati tra gli altri anche Stan Lee, Bernardo Bertolucci, Vittorio Taviani, Ermanno Olmi, Bruno Ganz e Albert Finney. Niente poco di meno che quel monumento di Gary Oldman, con Allison Janney, annuncia l’Oscar a Rami Malek, miglior attore e volto di Freddie Mercury, che con umiltà ringrazia i Queen per avergli permesso di partecipare a quella grande eredità, il papà che non è riuscito a essere lì presente e Lucy Boynton, conosciuta sul set e baciata appassionatamente, che è «il cuore di questo film, sei talentosissima e hai catturato il mio cuore». Dal palco dice: «Volevo comunicare la capacità di Freddie Mercury di guardare dal palco le persone nel pubblico e farle sentire bene con se stesse. Ha lottato con la sua identità, abbiamo fatto un film su un gay immigrato e lo abbiamo celebrato. Grazie a tutti quelli che mi hanno dato una mano ad essere qui, non ero la scelta ovvia ma ha funzionato». E ancora sulla statuetta che negli ultimi sedici anni per ben undici volte è andata ad attori che hanno recitato in film biografici: «Servono film come questo, sul coraggio di essere se stessi. Questa è la prova che amiamo questa storia. Io sono egiziano, la mia è la prima generazione di americani. Sono un immigrato, i miei genitori sono egiziani, questa vittoria la porterò nel cuore per tutta la vita». Nulla da fare quindi per Christian Bale che, dopo essere dimagrito per l’ ‘Uomo senza sonno’, essersi fatto un gran fisico per ‘Batman’ ed essere ingrassato molto per ‘American Hustle’, ha rimesso su pancia per interpretare Dick Cheney. Ma il primo dei due inattesi colpi di scena arriva solo nel finale, quando Olivia Colman, protagonista de ‘La favorita’ di Yorgos Lanthimos beffa “il proprio idolo”, la veterana sette volte nominata Glenn Close, fresca reduce da Golden Globes (drama), Satellite Awards (drama) e Screen Actor Guild: «È veramente un po’ stressante, è incredibile ho un Oscar… – dice la Colman – Glenn sei stata il mio idolo per tanto tempo, non volevo proprio portarti via la statuetta». La critica voleva la Colman, il pubblico Lady Gaga e la giustizia Glenn Close. E l’attrice, che sarà anche la regina Elisabetta in The Crown, sorpresa del risultato e premiata da Frances McDormand e Sam Rockwell, ha ricordato i tempi in cui faceva la donna delle pulizie e ha ottenuto una standing ovation. Guillermo Del Toro, vincitore della migliore regia nel 2018, ha l’onore di premiare l’amico Cuarón che, dopo British Academy, Director Guild of America, Golden Globe e Satellite Award, dà anche continuità all’egemonia dei messicani in cinque delle ultime sei edizioni degli Oscar (con la sola eccezione del 2017 con La La Land) e ringrazia per il riconoscimento «a un film che racconta la storia di una donna che come milioni di lavoratrici nel mondo lavora senza diritti». Già nominato per ‘Y tu mamá también’ e ‘I figli degli uomini’, portando a casa due Oscar tecnici per ‘Gravity’, con quest’edizione porta a cinque il suo palmarès personale. Julia Roberts annuncia il successo di ‘Green Book’, “storia che parla di amarsi al di là delle differenze”, nella categoria più ambita. Tra i ringraziamenti anche una dedica a Carrie Fisher e a Steven Spielberg. E così, dopo i PGA, la storia dell’amicizia che supera i suoi pregiudizi si impone in un’edizione contraddistinta dalla maggiore diversità, con un’ondata di nomination per storie e protagonisti afroamericani.
Ancora una volta Venezia porta fortuna: ‘Roma’, ‘La favorita’, ‘A Star Is Born’, ‘Opera senza autore’ e ‘La ballata di Buster Scruggs’ sono passati dal Lido, come prima di loro ‘La forma dell’acqua’, ‘Il caso Spotlight’ e ‘Birdman’. Venezia batte Cannes che aveva premiato ‘Un affare di famiglia’. Ma è anche l’anno di ‘Black Panther’, primo cinecomic ad aver conquistato la nomination come miglior film. Olivia Colman, Rachel Weisz ed Emma Stone fanno entrare ‘La favorita’ nel Guinnes dei primati hollywoodiani: in 91 anni di storia degli Oscar, è solo la 19ma volta che 3 attrici vengono nominate per lo stesso film. Alfonso Cuarón, con 4 nomination personali per ‘Roma’ raggiunge Orson Welles e Warren Beatty. E se ‘Roma’ è anche il primo film Netflix ad essere nominato come Miglior film, la 25enne indio Yalitza Aparicio è una absolute beginner nel film recitato anche in dialetto atzeco, che racconta di una famiglia messicana degli anni Settanta che vive a Colonia Roma, un quartiere di Città del Messico, e lo fa attraverso il punto di vista di Cleo, la domestica e tata della famiglia. Ma cosa ci lascia questa 91esima edizione degli Academy Awards? Il primo film da regista di Bradley Cooper e il primo da attrice protagonista di Stefani Joanne Angelina Germanotta alias Lady Gaga con Cooper che interpreta un musicista country con molti problemi disposto ad aiutare una giovane cameriera ad avere successo nel mondo della musica. Solo la quarta versione di una storia che era già diventata film nel 1937, nel 1954 e nel 1976. Poi c’è la storia vera, raccontata nel libro ‘Black Klansman’, di un poliziotto nero e di un poliziotto ebreo che negli anni Settanta, in Colorado, si infiltrarono nel Ku Klux Klan (nel film John David Washington e Adam Driver) nonché il diciottesimo film dell’universo cinematografico Marvel diretto da Ryan Coogler e interpretato da Chadwick Boseman. Se l’avete persa recuperate anche l’Inghilterra all’inizio del Diciottesimo secolo, al tempo della guerra tra Francia e Inghilterra, quando la regina era Anna, vera freak malata, gonfia e insicura che si porta addosso la maschera dell’inadeguatezza di un potere ingombrante e a governare davvero era la sua amica Lady Sarah. 6 donne statunitensi, 2 messicane e le britanniche Colman e Weisz (cortigiana con Emma Stone) a raggiungere anche la falsaria McCarthy – superba in ‘Copia originale’ di Marielle Heller – e la perfezionista Adams quale maligna dark lady in ‘Vice’ di Adam McKay. La mancata statuetta alla 71enne Glenn Close per il ruolo – certo non al pari della marchesa de Merteuil – di moglie segregata (ma geniale) in ‘The Wife’ di Björn L Runge è un neo imperdonabile ma questo tassello non mette in discussione lo spessore artistico dell’interprete. Convince meno la seducente ed esplosiva performance di Gaga che ha più il sapore di un trend commerciale che non di profonda qualità attoriale. Per quanto perfettamente “in parte” – e come potrebbe essere altrimenti – la pop star funziona per la sapiente simbiosi creata grazie alla chimica con il suo partner/regista sul set che non di per sé. E siamo stati svegli fino alle cinque e mezza perché guardare i servizi dei tiggì la mattina seguente non è mica pari a gustarsi la serata in diretta con le occhiaie nere, la palpebra che cala e la copertina di pile sulle ginocchia. Adesso, archiviato il red carpet domestico su SkyCinemaUno, i pigiami eleganti e le vestaglie di un certo livello posso essere opportunamente riposti. Si può serenamente ritornare al binge watching da serie tv o allo zapping serale. Magari recuperando qualche titolo clamorosamente mancato in vista della awards season e della Oscar run.
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