L’arrivo in Italia del presidente cinese Xi Jinping riaccende paure e speranze. Nonostante le rassicurazioni del governo italiano, Bruxelles e Washington hanno aperto un fronte di polemiche contro la «Belt and Road», la Via della Seta tracciata da Xi Jinping per costruire un corridoio terrestre lungo l’Asia Centrale e uno marittimo attraverso l’Oceano Indiano e l’Africa per avvicinare la Cina all’Europa. Xi aveva lanciato l’idea nel 2013 con un discorso nella mitica Samarcanda, in Uzbekistan. Quando aveva parlato di «Yi Dai Yi Lu», che significa «Una cintura una strada», «One Belt One Road», pochi avevano prestato attenzione: il presidente cinese era ancora un oggetto sconosciuto, non si capiva se fosse un riformista o un conservatore, non era ancora leader a vita con il suo Pensiero iscritto nella Costituzione del Partito-Stato della seconda economia mondiale.
Poi Xi si è fatto capire meglio: vuole realizzare un grande progetto industriale, commerciale e infrastrutturale per ampliare ed aumentare il benessere della sua popolazione e il suo ruolo in ambito internazionale. Ed ha proposto a chi «non ha paura di navigare nell’oceano della globalizzazione» di «salire sul treno dello sviluppo». Frasi retoriche accompagnate però da cifre enormi: la nuova Via della Seta sarà lastricata con 900 miliardi di dollari almeno in investimenti per costruire linee ferroviarie, porti, strade, telecomunicazioni, griglie energetiche tra Est e Ovest.
Gli obiettivi della Cina hanno allarmato molti Paesi, iniziando dagli Usa. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha detto che l’adesione alla «Belt and Road» potrebbe «danneggiare la reputazione globale dell’Italia nel lungo periodo». Secondo il Financial Times, la Nuova Via della Seta comprometterebbe la pressione degli Stati Uniti nei confronti della Cina per il commercio e rischierebbe di danneggiare il tentativo di Bruxelles di trovare un percorso comune nell’Ue per la gestione degli investimenti cinesi. Per Washington l’obiettivo di Pechino non sarebbe economico ma geopolitico, per sovvertire l’ordine costituito. L’Unione Europea si focalizza invece sulle questioni legali: i Paesi comunitari temono che la Cina possa egemonizzare gli appalti infrastrutturali frenando la libera concorrenza.
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Perché la Cina fa tanta paura? Per un modello di business spregiudicato e svincolato dagli standard occidentali in termini di norme e diritti; per un sistema autoritario dove il partito unico detiene il controllo totale; per la possibilità che dati sensibili transitino dalle reti ad alta velocità 5G controllate da colossi delle telecomunicazioni come Zte e Huawei. Soprattutto per rapporti di forza squilibrati a scapito di Paesi che finiscono per dipendere da un creditore pronto ad appropriarsi di risorse strategiche, come nel caso dello Sri Lanka che è stato costretto a cedere la proprietà di un porto finanziato da Pechino.
Tutti gli occhi sono puntati sul memorandum di intesa con l’Italia, che diventerebbe il primo membro del G7 a schierarsi con Pechino. Nel frattempo, altri 13 Paesi europei hanno già firmato accordi simili. Anche il Lussemburgo è impegnato in un negoziato con Pechino. Il premier italiano, Giuseppe Conte, ha assicurato che l’iniziativa cinese «è una scelta di natura squisitamente economico commerciale, perfettamente compatibile con la nostra collocazione nell’Alleanza atlantica e nel Sistema integrato europeo». Rassicurazioni sono arrivate anche dal Quirinale che ritiene il memorandum «molto meno pregnante di documenti analoghi stipulati da altri Paesi europei». Nel progetto tracciato da Xi Jinping un ruolo importante sarebbe ricoperto dal porto di Trieste, con possibilità anche per il porto di Genova e di Venezia. A tal proposito il premier ha assicurato che non esiste il rischio di trasformare i porti in una colonia cinese, come è accaduto qualche anno fa in Grecia con il porto del Pireo.