Sin dal loro debutto nel 1999, The National sono stati il suono del battito del cuore, escavatori di emozioni profonde. Una sorta di Radiohead americani filtrati attraverso i Rem, Nick Cave e Joy Division. Nell’anno del loro ventesimo anniversario, quando la tristezza esistenziale dell’umanità sembra approfondirsi ogni giorno, i National sono la band perfetta per questi tempi. «Il suono dell’apocalisse!» ride il chitarrista Scott Devendorf. «C’è qualcosa in questo. Siamo terapeuti, in questi tempi. Forse no, non siamo qualificati!».
Il legame con la tristezza forse è innato in Aaron Dessner, chitarrista e autore di molte delle canzoni dei National. «Ho sofferto di depressione al liceo», spiega. «Ero un ragazzo fortunato, bella famiglia, nessuno ha fatto niente di sbagliato per me. Scrivere musica con Bryce (il fratello, anche lui nella band, nda) è stata la terapia. Ecco perché molta della nostra musica è meditativa, gli strati, i ritmi, i modelli».
È una musica che può essere la colonna di questi tempi bui. «Brutali» commenta Matt Berninger, voce profonda e baritonale della band di Cincinnati. «L’ascesa dei fascismi nel mondo, un livello elevato di violenza nel linguaggio e nel pensiero», denuncia. «Guardiamo a Trump che mette i bambini in gabbia al confine, vediamo quello che accade con la Brexit o in Italia con i partiti fascisti: diverse forme di odio stanno prendendo potere… La musica è una forma di resistenza, di protesta».
Il nuovo album, “I am easy to find” potrebbe rappresentare un nuovo punto di partenza per The National. Ma anche di arrivo. «Da tempo pensavamo di fermare la band» rivela Berninger. «Abbiamo solo bisogno di riavviare tutto». «Molte delle più grandi band rock non sono mai arrivate a dieci anni», osserva Bryce Dessner. Lui pensa spesso alla vita oltre i National: oggi è un prolifico compositore per orchestre globali, recentemente immerso nel progetto di Minimalist Dream House con Thom Yorke e altri virtuosi classici. «Gli ego, i desideri, le ambizioni creative: ognuno ha la sua sfida personale da portare avanti. Dopo questo album ci sarà probabilmente una lunga pausa» ha rivelato al quotidiano The Guardian. Dopo il concerto che The National terranno il 9 agosto all’Ypsigrock Festival di Castelbuono potremmo non rivederli più sul palco tutti insieme.
D’altro canto, le priorità personali stanno cambiando. Di recente, Bryce ha visto «la nostra famiglia implodere». «Ogni volta che fai un tour, ti allontani da queste piccole persone che ti apprezzano davvero», dice. «Tutto il tempo perso accanto ai tuoi cari non lo avrai indietro. Quando hai 22 anni, la band è la tua vita, ma ora a 43 anni ci sono cose più importanti della band. Quindi è davvero difficile».
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Berninger ha invece coinvolto la moglie Carin Besser, autrice di diverse canzoni del nuovo disco. Una collaborazione cominciata con l’album “Boxer” del 2007 e che in questo album diventa più presente. Neurosi, illusione e auto-analisi caratterizzano sempre il libro di canzoni dei National, ma questo progetto contiene una forte componente femminile. Ben rappresentata nel film del regista Mike Mills che accompagna l’album. È il racconto, in bianco e nero, della vita di una donna, dalla nascita alla morte. Neonata e anziana in fin di vita ha sempre il volto di Alicia Vikander, senza trucco, tutto affidato all’espressione del corpo.
Tra le nuove canzoni, risalta “Not in Kansas”, un flusso di coscienza di Berninger sullo stile dei primi Strokes. Facendo perno su una ninna nanna corale, la conclusione lenisce gli ascoltatori con un promemoria ambivalente sull’imminente apocalisse del clima.
Rock del nuovo millennio, dunque, che non dimentica il passato ma prova, con intelligenza e cuore, a raccontare i nostri giorni.