Le parti sociali, sindacati e imprese, bocciano l’introduzione del salario minimo legale in Italia. «Già oggi nei principali contratti nazionali di lavoro dell’artigianato, che presentano i livelli retributivi tra i più bassi fra tutti i settori economici presenti nel Paese, le soglie minime orarie lorde complessive sono comunque superiori alla proposta di legge del Movimento 5 Stelle». È quanto sostiene l’Ufficio studi della Cgia, l’associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, nel far presente come «la materia contrattuale sia molto complessa ed è estremamente riduttivo analizzarne solo ed esclusivamente la retribuzione oraria lorda». Sulla stessa linea anche Confindustria: «Il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei contratti nazionali è ben più esteso del mero trattamento economico minimo».
Mentre la proposta della senatrice pentastellata Nunzia Catalfo di introdurre il salario minimo orario di 9 euro lordi al quale agganciare i contratti che presentano livelli retributivi inferiori resta in stand by in Parlamento, anche per le resistenze all’interno della maggioranza da parte della Lega, prosegue invece la discussione su una retribuzione equa. Ma se è vero che esistono in Italia lavoratori poveri, con retribuzioni al di sotto dei minimi contrattuali, è anche vero che la proposta del M5s rischia non solo di mancare l’obiettivo, ma anche di creare problemi alle imprese e, ancor più, ai lavoratori.
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Perché in Italia esiste già una sorta di salario minimo, cioè quello fissato dall’Inps a fini pensionistici in misura pari a 6 euro per ogni ora di lavoro. Così come esiste un salario “giusto”, superiore ai 6 euro, che deve essere proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro di ciascuno, come vuole la Costituzione, e che è fissato dalla contrattazione collettiva, che oggi copre tutti i lavoratori subordinati del settore privato e pubblico. Nella difficile operazione di determinazione della giusta misura del salario minimo legale può essere utile confrontarsi con le esperienze degli altri Paesi: «I 9 euro corrispondono all’80% del salario orario mediano registrato nel nostro Paese – spiega il direttore Area Lavoro, Welfare e Capitale umano di Confindustria, Pierangelo Albini – È una percentuale che, considerando che la media Ocse è pari al 51%, renderebbe il nostro Paese quello con il salario minimo più disallineato rispetto al salario mediano. Se prendessimo a riferimento il rapporto tra salario minimo e salario mediano della media Ocse, il valore nel nostro Paese dovrebbe attestarsi a circa 5,74 euro».
Per le imprese questa operazione è doppiamente penalizzante perché, direttamente o indirettamente, aumenta il costo del lavoro e incide negativamente sulla loro competitività. L’incremento delle retribuzioni, effetto della fissazione del salario minimo a 9 euro, determinerebbe un maggiore costo del lavoro di 6,7 miliardi (secondo le stime fatte dall’Inapp). La misura, bandiera del M5S, si applicherebbe infatti a circa 2,6 milioni di dipendenti del settore privato non agricolo (esclusi i lavoratori domestici). Di questi, circa 1,9 milioni sono lavoratori a tempo pieno (il 18,4% del totale dei dipendenti a tempo pieno), e in riferimento a loro, l’aggravio a carico dei datori è calcolato in 5,2 miliardi. I rimanenti circa 680mila lavoratori sono impiegati a tempo parziale (il 29% del totale dei dipendenti part-time). In questo caso, l’adeguamento retributivo al nuovo minimo legale di 9 euro lordi l’ora peserebbe sulle imprese per 1,5 miliardi.
Ai lavoratori rischia di andare anche peggio, perché la previsione di un salario minimo per legge potrebbe indurre molte imprese a disapplicare i contratti collettivi per fare riferimento esclusivamente al salario minimo legale. I lavoratori perderebbero così tutti quei benefici aggiuntivi che la contrattazione collettiva ha garantito loro nel corso degli anni e che il sistema pubblico non è più in grado di assicurare. Inoltre, la fissazione per legge del salario minimo si potrebbe prestare a “manovre” elettoralistiche: le forze politiche potrebbero, alla ricerca di consenso in campagna elettorale, promettere aumenti del salario minimo tutti a carico delle imprese.