Potrebbe essere battezzato l’asse della paura. Corre dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Gran Bretagna all’Argentina, dalla Germania fino all’Italia ed è connesso al rischio recessione. Per la prima volta da oltre un decennio, si è invertita la curva dei rendimenti dei titoli di Stato Usa tra la scadenza a 2 anni e quella a 10, situazione che non si verificava da maggio 2007 e che, negli ultimi 40 anni, è sempre stata anticipatrice di una recessione dell’economia americana. Il tasso dei titoli biennali si è attestato all’1,628%, contro l’1,619% dei bond a 10 anni. In generale i rendimenti dei titoli di Stato a breve termine tendono a riflettere le attese sulla politica dei tassi di interesse della Federal Reserve, mentre quelli sui titoli più a lungo termine riflettono in gran parte le aspettative di crescita e di inflazione. Per Bank of America la probabilità di recessione negli Stati Uniti è ora superiore al 30%. E per Goldman Sachs aumentano i rischi di recessione legati alla guerra dei dazi.
Da quando è iniziata la guerra commerciale tra Cina e Usa i soli agricoltori statunitensi hanno perso ricavi per 17,3 miliardi di dollari. Pechino ha colpito le esportazioni Usa di soia, mais e grano dopo che Trump aveva portato i dazi dal 10 al 25% sui prodotti cinesi per un controvalore di 200 miliardi di dollari. Un momentaneo sollievo, accolto dai mercati con una temporanea risalita dei listini azionari, è stato l’annuncio di uno stop provvisorio fino al 15 dicembre dell’introduzione di nuovi dazi al 10% su 300 miliardi di importazioni cinesi. Ma anche in Cina si avvertono i primi segnali di crisi: la produzione a luglio è cresciuta appena del 4,8%, il passo più lento da 17 anni.
In Europa le cose non vanno meglio: in Germania l’asfittico andamento delle esportazioni ha portato ad una contrazione dello 0,1% del Pil nel secondo trimestre. «In buona sostanza, l’economia tedesca si trascina sull’orlo della recessione», spiega a Reuters Andrew Kenningham di Capital Economics, A pesare sull’andamento dell’economia tedesca è stato il calo delle esportazioni legato al rallentamento della domanda a seguito della guerra commerciale Cina-Usa e della Brexit, ma anche alla crisi dell’auto diesel. E il rallentamento della ex “locomotiva” frena tutta l’Eurozona, che tra aprile e giugno è cresciuta solo dello 0,2% contro il +0,4% del trimestre precedente. Per l’Italia si conferma la crescita zero, secondo dato peggiore dopo quello di Berlino, mentre la Francia mette a segno un +0,3% e la Spagna +0,7 per cento. A giugno del resto la produzione industriale è crollata in tutta la zona euro: Eurostat ha registrato un calo dell’1,6% contro il +0,8% di maggio.
L’Italia a giudizio di molti è il grande malato d’Europa. In un contesto di crescita attesa del Pil 2019 pari allo 0,1% (ma non dimentichiamo che a fine luglio l’Istat ha certificato una crescita zero) basta poco per veder ripiombare l’economia del Paese nella recessione. Roma viene da due trimestri di crescita negativa (quarto trimestre 2018 e primo 2019), la cosiddetta recessione tecnica. La crisi di governo, la mancanza di una politica di sviluppo credibile e di lungo periodo, la forte dipendenza della crescita economica dalle esportazioni (minacciate dalla guerra commerciale tra Usa e Cina e dalla possibile recessione in Germania) aprono scenari molto pericolosi sul versante del debito pubblico.
Ad aggravare ancora di più una situazione c’è il rischio di una Brexit senza accordo. Dal 23 giugno del 2016, quando il 51,89% dei cittadini britannici si pronunciò a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel referendum popolare convocato dall’allora premier David Cameron, la Brexit è diventata un tormentone nel dibattito politico. Le previsioni di crollo dell’economia reale e di caduta nella recessione formulate dalla Banca d’Inghilterra all’epoca del voto non si sono realizzate nell’immediato. Ma adesso dopo il fallimento del negoziato dell’ex premier Theresa May e il rischio di una uscita senza accordo, il famoso «no deal» in larga misura auspicato dal nuovo primo ministro Boris Johnson, lo scenario diventa sempre più probabile. «Nel caso di una Brexit senza accordo, il tasso di cambio della sterlina probabilmente si ridurrebbe, l’inflazione aumenterebbe e la crescita del Pil rallenterebbe”, scrive la Bank of England nel comunicato della sua riunione di politica monetaria di agosto. La Banca centrale vede ora un Pil in aumento dell’1,3% sia nel 2019 sia nel 2020, mentre in precedenza stimava una crescita dell’1,5% per quest’anno e dell’1,6% per il 2020. Il rischio di una recessione, sia in Gran Bretagna che nelle aree dell’Unione europea maggiormente interconnesse con gli scambi Oltremanica, non è escluso.