Boris Johnson mette in atto il suo piano per scongiurare un possibile rinvio della Brexit: chiede e ottiene dalla Regina Elisabetta la chiusura del Parlamento per cinque settimane. In un comunicato ufficiale del Privy Council, ovvero l’organo dei consiglieri della Regina, si legge: «Viene ordinato oggi da Sua Maestà che il Parlamento venga sospeso in un giorno compreso fra non prima di lunedì 9 settembre fino a non oltre giovedì 12 settembre», La Camera dei Comuni, poi, riaprirà il 14 ottobre, dopo un discorso della Regina in cui verrà presentata «la nuova agenda del governo». La sospensione delle attività parlamentari, che in gergo si chiama prorogation, impedirà ai deputati di votare qualsiasi rinvio della Brexit, anche in caso di no deal.
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I britannici sono divisi su quali saranno le conseguenze del no deal. I più forti sostenitori della Brexit ne parlano come di un’opportunità per il Regno Unito, che dopo un periodo di iniziale assestamento permetterebbe al Paese di sviluppare appieno le sue potenzialità di crescita. La maggior parte degli osservatori, però, ne dà una descrizione ben diversa con conseguenze economiche catastrofiche come quelle riportate dal Sunday Times che nei giorni scorsi ha pubblicato in esclusiva un documento prodotto dal governo inglese in cui viene descritto lo scenario dei primi cento giorni di una Brexit senza accordo. Nel report, chiamato “Operazione Yellowhammer”, si tratteggia uno scenario decisamente poco auspicabile, in cui il Regno Unito si troverebbe a fronteggiare scarsità di farmaci, cibo e carburante, oltre che un prevedibile caos alle dogane.
Ma cosa significa, concretamente, uscire dall’Ue senza un accordo? Una definizione asciutta e scientifica si trova nel principale documento sulla Brexit prodotto dalla Commissione Europea, in cui si legge che se non sarà raggiunto un accordo entro il 31 ottobre 2019 «il Regno Unito diventerà una terza parte rispetto all’Unione, e le leggi dell’Unione smetterebbero di applicarsi sia nei confronti del paese che al suo interno». Questo comporterà una serie di conseguenze. La prima è che i cittadini europei residenti nel Regno Unito e quelli britannici residenti nell’Unione si troverebbero improvvisamente senza uno status giuridico (tecnicamente extracomunitari). La seconda è la cessazione istantanea di tutti gli accordi esistenti che permettono alle persone e alle merci di viaggiare liberamente tra Unione Europea e Regno Unito. Le frontiere che le dividono (soprattutto porti e aeroporti, ma anche i confini di terra tra Irlanda e Irlanda del Nord e tra Gibilterra e Spagna) diventerebbero come quelle che separano l’Unione da paesi terzi, con tutto il corredo di controlli. La terza conseguenza è che il Regno Unito perderebbe l’accesso al mercato unico europeo, l’area economica dentro alla quale non ci sono barriere agli scambi di beni e servizi. Le sue merci sarebbero quindi sottoposte a tariffe e controlli aggiuntivi previsti in questi casi.
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La conseguenza più concreta e visibile di questa situazione sarà la formazione di enormi ingorghi di autoveicoli sui due lati del Canale della Manica, dove sono situati i principali porti tramite i quali si svolgono gli scambi di merci tra Unione e Regno Unito. L’ingorgo principale sarà probabilmente quello che bloccherà il sud dell’Inghilterra, intorno al porto di Dover, dove si stima che potrebbero restare bloccati dai nuovi controlli doganali fino a 10mila autotrasporti; la coda che produrranno potrebbe arrivare a oltre 25 chilometri. Questo sarà un problema sia per gli esportatori britannici, che vedranno le loro merci bloccate per giorni sulle strade, sia per gli abitanti del Kent, la contea a sud di Londra in cui si trova il porto di Dover.