Sam Fender è stato scoperto al Low Lights Tavern, un pub di North Shields, nel nord dell’Inghilterra, dove era solito trascorrere le serate fra qualche canzone alla chitarra acustica e molte pinte di birra. Il suo futuro manager, Owen Davies, una sera si trovò a passare da lì e fu riconosciuto dal direttore del locale. «Il direttore del locale, che era mio amico, lo riconobbe e mi disse: “Prendi la tua chitarra e vai a suonare in quell’angolo”». Sam cominciò a suonare con la sua voce cavernosa e la sua immancabile chitarra (ovviamente una Fender). Owen Davies fu colpito da quel ragazzo ventenne. «Si avvicinò e mi chiese se avessi pezzi originali. E allora ho cominciato a suonargli alcune delle mie cose. E quella notte ho preso il numero…».
Sam Fender non fa parte di quel nutrito drappello di ragazzi ordinari del pop. Non canta di salvezze secolari, amori epici e lotte. Non è un altro della serie Ed Sheeran o Lewis Capaldi, che omogenizzano il rock, il dinamismo dell’EDM e la delicata elettronica, con occasionali intuizioni dell’hip-hop. E la sua voce non assomiglia per nulla al fragore dei piccoletti dei suoi coetanei, spesso voluttuosi ai livelli di vulnerabilità di Jeff Buckley. Fender ha zigomi da top model e canzoni sul suicidio maschile e sulla paura del disastro nucleare. Gli unici brani nel suo repertorio che sono in qualche modo romantici riguardano il sesso occasionale ubriaco. I suoi inni più schiumosi ricordano Liam Gallagher, se l’ex Oasis si fosse in qualche modo svegliato. Perché Fender riesce davvero a scrivere canzoni. I suoi singoli, come “Hypersonic Missiles” (che è anche il nome dell’album di debutto), sono letalmente orecchiabili – come un killer più meditabondo, accoppiato con un fanciullesco, amante degli ottoni, Bruce Springsteen, sebbene ci troviamo più a Newcastle che nel New Jersey.
Il suono dell’album “Hypersonic Missiles” è tuttavia radicato nel cuore degli Stati Uniti, nel rock di Tom Petty e Bruce Springsteen. Al primo Sam Fender c’è arrivato attraverso gli Strokes, al secondo si è avvicinato ascoltando i War on Drugs. Fa buon capitale della chiassosa e sovralimentata chitarra di Petty coniata sull’“American Girl” del 1976, mentre l’incantesimo che Springsteen ha lanciato su Fender si estende non solo al suo desiderio di scrivere brani che suonano grintosamente antemici, ma di impiegare un sax nello stile del compianto Clarence Clemons. Influenze udibili, ma non schiaccianti: tutto suona originale e molto ben fatto.
Come il Boss del rock, anche Sam Fender è un “working-class hero”. Definizione che però lui odia. «Non voglio aggrapparmi a questa faccenda dell’essere “un eroe di classe”, perché può sembrare non del tutto genuino. Prima che i miei genitori si separassero, vivevamo in una di quelle case a schiera, il che era abbastanza bello. E mio padre lavorava e mia mamma era un’infermiera. Dopo la separazione, se devo essere sincero, gli ultimi dieci anni della mia vita sono stati difficili».
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Se Bruce Springsteen è un “killer sotto il sole”, Fender è un killer tra le nebbie. Come il rocker del New Jersey, nei suoi testi racconta soltanto ciò che vede, «e se qualcuno legge nei miei brani messaggi politici, non riesco a dare una risposta». E sottolinea: «Ho solo domande, non risposte». I suoi testi riflettono le conversazioni che si svolgono tra amici nei caffè, nei pub e sulle terrazze: frustrazioni, incomprensioni e disperazione. “Dead Boys”, la canzone che ha alzato la posta in gioco per Sam subito dopo aver firmato il suo primo contratto discografico, affronta il tabù del suicidio. Avendo perso amici intimi proprio per questo, Fender ha voluto affrontare l’argomento in una canzone. La reazione è stata immediata. Aiutato da uno splendido video diretto da Vincent Haycock, i giovani si sono da allora avvicinati a Sam dopo i concerti per ringraziarlo per aver scritto un testo tanto attuale e drammatico. Questo è quello che può fare la buona musica andando oltre alla melodia. «Ho passato tutta la mia vita a voler avere successo, cercando di sfuggire alle difficoltà o di non vedere mia mamma triste. E l’ho capito adesso ed è molto strano» commenta oggi. «Sono successe così tante cose straordinarie in questo ultimo anno: non c’è da meravigliarsi se le persone si rivolgono alle droghe. E c’è molta paranoia».
“Hypersonic Missiles” è un album coraggioso, che tratta anche temi scomodi. In “The Borders”, inno diretto e potente con un sax alla Clarence Clemons, ci sono i racconti di una cupa e dimenticata città del nord, caratterizzata dalla mancanza di fiducia della sua gente. In “Will We Talk?” evoca incessantemente il suono smash-and-grab di New York, ma sostituisce l’immaginario di quei vivaci marciapiedi con le grondaie illuminate al neon di Newcastle, inondate di vodka. Se non lo è già, questa è destinata a diventare la canzone preferita dal vivo. Un inno rock’n’roll della durata di tre minuti. “Hypersonic Missiles” non è un debutto perfetto, il che è probabilmente meglio, ma è un album che suona non solo come una raccolta di successi, ma è il forte annuncio di un talento raro, sorprendente, con un grande potenziale. Il che, dopo tutto, potrebbe renderlo un debutto perfetto.