Le revisioniste femministe spesso dicono che la mancanza di opportunità per le donne di suonare musica è stato il motivo che ne ha spinte così tante a diventare fan scatenate, e alcune ancora più oltre fino a diventare groupie. Liquidare così la storia delle “ragazze in prima fila” sminuisce la partecipazione autentica che questa sottocultura, apparentemente periferica, offriva alle donne. Ma cos’erano esattamente le groupie? Sono sempre state figure controverse e il giudizio su questo fenomeno è stato spesso troppo superficiale e contraddittorio. Una groupie è innanzitutto una fan devota di certi gruppi o cantanti, conosce tutte le canzoni a memoria e non si perde mai nemmeno un concerto, la si trova spesso in prima fila, a urlare e dimenarsi per farsi notare dai suoi idoli.
Pamela Ann Miller, classe 1948, più conosciuta con il cognome dell’ex marito Des Barres e popolare negli anni Sessanta come “Queen of the groupies”, nel libro “Io sto con la band” (1987) ricorda la sua vita di liceale beatlemaniaca che comprendeva tenere un diario dettagliato, collezionare gingilli come cestini da pranzo o bambole Beatle, scrivere elaborate fantasie erotiche da scambiare con le amiche, e recitare “parodie Beatle” con perfetto accento di Liverpool. Questi giochi innocenti avevano un significato più profondo: come suggerisce la storica della cultura Barbara Ehrenreich, gettavano il seme della liberazione delle donne. «Perdere il controllo, gridare, svenire, andare in giro in bande, era, nella forma se non in una intenzione cosciente, protestare contro la repressione sessuale, i due pesi e due misure della cultura giovanilistica femminile. Era la prima e la più drammatica sollevazione della rivoluzione sessuale femminile».
Le ragazze appena risvegliate del rock non volevano soltanto gridare. Cavalcarono quello spirito fino all’azione, a volte assumendosi dei rischi. «Siamo state muse per le band» sostiene Pamela Des Barres, autrice anche del più recente “Let’s Spend The Night Together”. Lei li ha avuti tutti: Mick Jagger dei Rolling Stones, Jimmy Page dei Led Zeppelin, Keith Moon degli Who, persino Jim Morrison dei Doors. Ma, per lei, «non si trattava solo di conquistare uomini, ma piuttosto di stare con quella forza creativa. L’influenza è stata reciproca: molti musicisti hanno cominciato a vestirsi come noi, con lustrini e gioielli. Basta guardare le vecchie foto dei Rolling Stones». Parole che hanno ispirato una istantanea di quel periodo selvaggio e vitale nel celebre film di Cameron Crowe “Almost Famous” (2000) nel quale il personaggio di Penny Lane è ispirato proprio alla figura della giovane e ammaliante groupie: «Noi siamo qui per la Musica. Noi siamo le “aiuta-complessi”. Noi ispiriamo la Musica».
Prendiamo il caso di Anita Pallenberg, modella e attrice (nata a Roma nel 1944, pochi mesi prima della Liberazione), morta a 73 anni. Era più carismatica di una rockstar, più esuberante di qualsiasi top model dell’epoca, troppo colta e poliglotta per essere liquidata come groupie, già inserita in un milieu culturale e artistico che era un miraggio per neodivi provinciali. Mediterranea e teutonica, poco talento e molta personalità, spavalda e disinibita, per oltre mezzo secolo è stata la musa obliqua e sfuggente di una delle band più celebrate della storia, i Rolling Stones. Scelse fin da ragazza di fare una vita rock senza imbracciare la chitarra, senza urlare la sua rabbia; per lei rock voleva dire libertà totale, viaggiare, scegliersi amanti di valore senza farsi assalire dai rimpianti dell’abbandono, crearsi famiglie non riconosciute all’anagrafe, vagabondare tra gli artisti senza la smania di diventare una di loro.
C’è una linea molto sottile che separa le muse dalle groupies. D’altronde le origini del termine “groupie” sono oscure: forse un giornalista musicale geloso del loro accesso al backstage, secondo Des Barres. È una parola intrisa di sessismo: «All’epoca aveva una certa sfumatura peggiorativa», afferma il fotografo Baron Wolman che ha documentato il fenomeno nel volume “Groupies and Other Electric Ladies”. «Vorrei essere chiaro, quelle donne non erano prostitute: alcune di loro sapevano di più della musica rispetto ai musicisti stessi». E furono spesso proprio gli stessi artisti i primi a riconoscere le doti e il talento delle “ragazze del backstage”. Chi sposandole: John Lennon con Yoko Ono, Sid Vicious e Nancy Spungen, e una groupie era Adelaide Gail Sloatman, divenuta moglie di Frank Zappa. Chi inserendole nel proprio team: David Bowie fece diventare sua agente pubblicitaria la groupie Cherry Vanilla.
Nel film “Marianne & Leonard: Words of Love”, presentato al Sundance Film Festival e uscito lo scorso luglio nelle sale inglesi, il regista Nick Broomfield esamina la relazione tra il poeta e musicista Leonard Cohen e Marianne Ihlen, una madre single norvegese che conobbe nel 1960 sull’isola greca di Idra ed alla quale l’autore di “Hallelujah” dedicò “So Long, Marianne”. Il docu-film non racconta l’artista, ma il suo amore appassionato e intenso con la sua musa ispiratrice. I ricordi di Ihlen della vita con Cohen includono fare la spesa e preparare i pasti. Mentre lui, attaccato alle droghe, scrive il romanzo “Beautiful Losers” sulla sua macchina da scrivere, lei gli porta amorevolmente i panini. A volte si siede ai suoi piedi. Leonard s’inebria della bellezza di Ihlen, celebrandone lo spirito educativo, ma non sembra interessato alla sua vita interiore o alla sua sofferenza. Se non nell’epitaffio finale: «Bene Marianne, eccoci dunque diventati molto vecchi, i nostri corpi ci stanno abbandonando, e credo che presto ti seguirò. Sappi che ti sono così vicino che se allunghi la mano, puoi raggiungere la mia. Sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, anche se è inutile che ti dica queste cose, perché le sai fin troppo bene. Ora voglio solo augurarti buon viaggio. Arrivederci mia vecchia amica, amore senza fine, ci vediamo in fondo alla strada». Ihlen, che ispirò a Cohen “Bird on the Wire”, si spense nel 2016, a 81 anni. Il cantautore e poeta la raggiunse pochi mesi dopo, il 7 novembre 2016. “Marianne & Leonard” è una suggestiva storia, in gran parte costituita da filmati sgranati della coppia e dei loro amici, e mostra l’isola di Idra come poco più che un miraggio, un luogo in cui i bambini vengono trascurati e le coppie cadono a pezzi. Ma forse il messaggio più insistente del film è quanto sia una gran “rottura di palle” essere una musa.
Nel 2001, sullo stesso tema, il regista Bruce Beresford aveva girato “Bride of the Wind”, film incentrato sulla vita di Alma Maria Schindler. Compositrice e scrittrice austriaca. Amante, fidanzata e poi sposa di Gustav Mahler. Musa o groupie? Temendo la capacità creativa di Alma, il compositore austriaco le chiese di abbandonare le sue aspirazioni musicali per prendersi cura della famiglia. Tra una morte in famiglia e sentirsi non apprezzata, Alma cercherà conforto tra le braccia di Walter Gropius, fondatore della scuola di architettura Bauhaus.
La storia dell’arte, della musica e della letteratura è disseminata di donne alle quali è stato conferito lo status di musa ispiratrice, ma le cui vite sembravano miserabili e le cui eredità rimangono indistinte. La povera Lizzie Siddal si becca una polmonite che le risulterà fatale posando come Ofelia nella vasca da bagno. Non tutti gli artisti fanno risiedere le loro muse in bagni gelidi, ma spesso eclissano le loro carriere. Chiedi a Marianne Faithfull, che era una cantante prima di incontrare Mick Jagger e di diventare “un angelo con grandi tette”. Non c’è da stupirsi se il suo capolavoro, “Broken English”, sia emerso quando lei e Mick si lasciarono. Durante la sua vita, il lavoro della pittrice Frida Kahlo è stato trascurato a favore del marito artista, Diego Rivera, che non amava altro che dipingere sua moglie; solo alla morte ottenne finalmente il dovuto credito. L’elenco delle donne trascurate, messe da parte o rovinate dagli amanti dei loro artisti potrebbe continuare.
Le muse di oggi sembrano avere un ruolo migliore: nel mondo della moda Kate Moss è certamente una musa ispiratrice, ma non è mai stata subordinata a nessuno. Così come Gwyneth Paltrow, Winona Ryder e Pamela Anderson. «Oggi c’è molto più controllo, molta più security attorno ai musicisti famosi. Tutte le rockstar hanno un agente, un manager, un assistente e una guardia del corpo» chiosa Pamela Des Barres. Che lascia aperta una speranza: «Ma c’è e ci sarà sempre una chance per le ragazze normali di inseguire e conquistare le loro rockstar preferite!».