Il busto di Lenin appeso a un elicottero portato via sui cieli di Berlino, immagine simbolica e potente trovata da Wolfgang Becker per raccontare la fine di un mondo, di quella città divisa come il suo cielo, di quelle famiglie spezzate, di un Paese rotto in due. Campione di incassi in patria e all’estero, “Good bye, Lenin!” è la storia di Christiane (Katrin Saß), fervente socialista abbandonata dal marito che ha un attacco di cuore e cade in coma per otto mesi. Al suo risveglio il muro di Berlino è caduto e tutto è cambiato, ma i dottori si sono raccomandati col figlio Alexander di non farle vivere emozioni eccessive. Alex si ritroverà quindi a ricostruire il mondo socialista dentro la casa che condivide con la mamma con conseguenti bugie ed esilaranti equivoci.
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Nel 2003 ne era già passato di tempo dal giorno della caduta del Muro nelle cui macerie si sgretolava la Cortina di Ferro e la riunificazione della Germania era un dato di fatto abbastanza incontrovertibile, almeno da quando a Italia ‘90 Lothar Matthäus sollevava a Roma la terza Coppa del Mondo. Eppure proprio in quell’anno, un po’ in sordina, usciva nelle sale il film che non solo lancia la carriera di Daniel Brühl – da Tarantino agli Avengers – ma che presenterà a un’intera generazione le contraddizioni della Germania Est e quel tipico sentimento dell’Ostalgia, la nostalgia per il “piccolo mondo antico” della Repubblica Democratica Tedesca. Un gioiello ricolmo di umorismo, trovate surreali e tanta, tantissima dolcezza, in cui il giovane protagonista, al pari di tanti suoi coetanei, trascorre la propria esistenza nei bigi e tristi anni Ottanta “orientali”, fatti di riti sempre uguali, tra parate di Partito, televisione di Stato con programmi incartapecoriti e squallidi oggetti di plastica arancione. Dopo l’abbandono del tetto coniugale da parte del marito, fuggito nel “corrotto e decadente” Ovest, la madre Christiane era divenuta sposa devota del Partito e quindi attivista per il progresso sociale in tutta una serie di buffe quanto “romantiche” iniziative volte a migliorare le condizioni sociali. Cose piccole, come ad esempio lamentarsi del taglio di un vestito oppure prendendosi la briga di insegnare canto ai giovani “pionieri comunisti” del proprio condominio.
Nessuno dei protagonisti è consapevole di trovarsi al capolinea di un’epoca. Eppure, nonostante le numerose sollevazioni popolari, è una percezione comune che la monotona ortodossia dei fedeli al Partito riesce a filtrare. Quello che sarà poi conosciuto come “il Gigante dai Piedi d’Argilla” – l’Unione Sovietica con i vari Governi degli Stati Satellite – riesce sempre con maggior difficoltà a tenere buona l’opinione pubblica. Lo scoppio di libertà, sessuale, ideologica e anche consumistica che irrompe nell’Est viene raccontata da Becker con rapide pennellate. I vecchi vestiti “comunisti”, fatti di stoffe sintetiche sono sostituiti dai look alla Madonna e alla Michael Jackson. In molti abbandonano le Facoltà Scientifiche che frequentavano per iniziare a lavorare nelle catene di fast-food che, come funghi, spuntano in tutta Berlino. Tutto cambia tranne una cosa: Christiane.
Si sveglia in un mondo completamente sconvolto, nel quale sui grandi palazzi sovietici di Berlino Est la bandiera con la falce e martello non sventola più, sostituita dai manifesti della Coca-Cola. La rivoluzione dell’ordine costituito trova utopico rimedio nell’idealismo hegeliano e nel romanticismo goethiano mentre il ragazzo costruisce il “gran teatro dell’assurdo” insieme all’amico con cui lavora in una ditta per l’installazione di parabole. Tra finti telegiornali comunisti, giornali ritagliati ad arte e il recupero dei prodotti alimentari sovietici, si impegnano a mantenere segreta la caduta della DDR il più a lungo possibile, ricreando un mondo saldamente radicato al passato nel quale anzi sono i tedeschi dell’Ovest, stanchi di quel mondo consumistico, a rifugiarsi nell’Est. Eppure la magia di questo film è proprio questa: far reggere un’ideale impossibile attraverso la dolcezza dei sentimenti, mentre le note efficaci di Yann Tiersen accompagnano le immagini.
Alex, per capire “da dove venga”, si avventura nell’Ovest alla ricerca di suo padre, fuggito anni prima. Si aspetta di trovarlo “grasso e unto” in compagnia di una qualche biondona di Monaco e invece scopre una persona diversa, ancora innamorato della madre e che convive da tempo con un tremendo senso di colpa – anche se poi di colpa non ne ha vista la chiusura delle frontiere. Una satira sottilissima, una commedia agrodolce, che racconta le contraddizioni e le aspirazioni di un popolo costretto a vivere nella fede e senza porsi domande. Al momento della sua uscita, il film unificò il giudizio di critica e pubblico, ponendosi come novità più per l’ambientazione che per la storia in sé, che, nell’intreccio, non proponeva nulla di nuovo. Quello che colpiva e colpisce ancora oggi è la ricostruzione storica, la riproposizione fedele di quegli ambienti e di quella nostalgia fatta di torpore e statico credo. L’universo e la vita della Repubblica Democratica Tedesca sono presentati dall’interno e diventano pop. Non era il primo film a parlare dell’argomento ma era il primo che riusciva a superare i confini tedeschi, coniugando il crollo dei dogmi all’argomento politico, partendo dalla cronaca reale di un momento storico importantissimo. La statua di Lenin vola su Berlino, si allontana, saluta quasi la nostra protagonista femminile e dona il suo benvenuto a un mondo totalmente nuovo. Un po’ come il Felliniano Gesù Cristo all’inizio de “La Dolce Vita”, ma meno simbolico.
Acquisito quasi lo status di film esistenziale, rivisto con lo sguardo di oggi e sopiti gli entusiasmi per l’argomento storico, emerge completamente il dramma umano di ogni protagonista che vive nel proprio mondo fatto di cristallo, in cui la minima scossa può essere fatale. Ogni essere umano è costretto ad affrontarsi quando cambia la Storia. È questo forse l’aspetto più interessante del cult di Becker: la caduta del muro è per i protagonisti la caduta del velo di Maya, la scoperta della verità. Il socialismo non esiste più e non bastano finti telegiornali e una riunificazione tedesca alla rovescia, per mettere i berlinesi occidentali in fuga dalle falsità del liberismo. Il regista smonta con intelligente ironia questo meccanismo contorto, restituendo la confusione di una Germania che sta per compiere un salto nel vuoto, dopo aver subito per anni una dittatura senza dittatori ma anche le contraddizioni di una fede cieca che altro non è se non la paura.