C’è chi la mattina indossa un camice bianco per seguire le orme del dottor Pasquano di camilleriana memoria. C’è chi vive di notte sperimentando esotiche misture di frutta e alcol. C’è chi alterna la palestra di arti marziali allo studio dei fonemi. E c’è ancora chi sale su una cattedra davanti a una classe di alunni. Ma al richiamo di Euterpe non sanno resistere. E tutti riescono a trovare un momento del giorno o della notte per riunirsi a suonare insieme. Sono Giovanni Torre, Gabriele Licciardello, Alessandro Sambataro, Sasha Santonocito, Domenico Quaceci. Rispettivamente, voce e chitarra, chitarra, basso, batteria, piano e synth dei Caleidø. Ma non lasciatevi ingannare dalla “o” tagliata, i cinque ragazzi, tutti ventenni, sono di Misterbianco, in provincia di Catania. «Il nome della band viene dal greco, καλός εἶδος» spiega Alessandro. «È traducibile come “bella immagine, bel paesaggio”, ci è piaciuto subito perché spiega perfettamente come vorremmo fossero le nostre canzoni: fotografie, o singoli fotogrammi di un qualcosa di più complesso. La “o” tagliata, invece, presa da sola vuol dire “isola”» a sottolineare appunto le origini siciliane.
Giovanni, proprietario di un cocktail-bar, Gabriele, tirocinante al Policlinico in medicina legale, Alessandro, laureato in linguistica e maestro d’arti marziali, Sasha, diplomato al conservatorio, e Domenico, biologo e diplomato al conservatorio, rappresentano la quarta generazione dell’indie pop. Ragazzi che ai talent preferiscono i palchi, inseguendo il sogno della musica, non il miraggio del successo, e con una laurea o un lavoro in tasca. Musicisti-lavoratori o lavoratori-musicisti, fate voi, come Enzo Jannacci e Roberto Vecchioni, che non hanno mai abbandonato la loro professione. «Sono molti i protagonisti di questa nuova ondata che cercano di conciliare la musica con un lavoro. Al Policlinico di Catania c’è da alcuni giorni Isabella Tundo, la cantante della band pugliese La Municipàl, che è laureata in foniatria». Ragazzi con la testa sulle spalle, si diceva una volta. Agganciati alla realtà, piuttosto che ipnotizzati da un mondo virtuale, oggetto di critiche nelle loro canzoni.
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Una storia d’altri tempi. Di amicizia, di passione per la musica e di forti legami familiari. «Ci conosciamo da almeno dieci anni e siamo anche vicini di casa» racconta Gabriele, mancino naturale, che è anche l’autore delle canzoni. «A 10 anni ho cominciato a studiare la chitarra. Ho incontrato Alessandro, Domenico lo conoscevo già perché andavamo a scuola assieme. Tre anni dopo ci siamo detti: “Facciamo un gruppo”». Nel frattempo, ai tre si era aggiunto Sasha, il “cucciolo” della band. «A quell’epoca aveva 9 anni: era così piccolo che non si scorgeva dalla batteria e faceva fatica a finire il pezzo» sorride Gabriele. «Ultimo arrivato Giovanni. È diventato il cantante della band quasi per caso: una sera scherzando canticchiava una canzone dei Negramaro e l’ho praticamente trascinato a forza in sala prove, dopodiché inseparabili».
Suonando il pop dei Cesaroni, crescono tra assemblee e feste scolastiche, rassegne e festival. «Abbiamo fatto ben tre Lennon Festival, dalla sezioni under 15 a quello per più grandicelli, vincendo sempre qualcosa, e poi Musicultura» continua Giovanni. Poi scoprono il rock dei Nirvana, dei Guns N’Roses, dei Rolling Stones. Ed è come rock band che si presentano a un contest svoltosi ad Acireale nel quale vengono notati da Enzo Velotto della ViceVersa records. Che affida i cinque ragazzi alle sapienti mani di Denis Marino e Michele Musarra. E dopo due anni di full immersion in studio di registrazione, è nato “Fate silenzio”, l’album di debutto dei Caleidø. Un disco adulto, sorprendente, che segna l’ingresso della band di Misterbianco nell’ondata di band con l’anima del cantautore esplosa tra gli anni Zero e Dieci. Una generazione di cantautori che usa il linguaggio di oggi, molto connesso al digitale, per la terminologia e per i suoni, decisamente synth-pop. Allo stesso modo, in fondo, in cui Battisti, Dalla, De Gregori, De André, Venditti si esprimevano, e facevano musica, in sintonia con il loro periodo. È il tempo che è nuovo: i Caleidø riflettono il colore di questa epoca. Inseguono l’onda, sulla scia dei Thegiornalisti e dei Coldplay, ma con l’intento di innovare. E i cinque giovani musicisti, come i migliori bartender, aggiungono una tessitura setosa e una schiuma leggera a un cocktail già collaudato.
Parlano dell’amore con un linguaggio social, e nel video del brano “La dieta” adottano lo stile Instagram. «C’è però molta ironia», sottolinea Giovanni. «I social non rappresentano la realtà, anzi spesso la deformano. Mostrano quello che tu vuoi far vedere alle persone». «C’è un utilizzo inappropriato della tecnologia. Le ragazzine si fanno comprare dai genitori costosi telefonini per farsi poi qualche selfie, non si ha contezza di quello che accade nel mondo» aggiunge Gabriele.
“La gente non si ama per niente” cantano. Il rapporto di coppia è il tema centrale del disco, nel quale l’amore viene declinato in tutte le sue versioni: da quello platonico al pornografico. «C’è molta facilità» ritiene Gabriele. «La facilità di comunicazione ha fatto intendere alla maggior parte delle persone che ci sia anche una sorta di facilità relazionale. Ciò ha distrutto la bellezza di una relazione sentimentale». Ma tra le righe si scorge il ritratto di una generazione in bilico tra malinconia e disperazione, senso di confusione e vuoto. I protagonisti di “Amici miei”, ballata dichiaratamente ispirata al celebre film di Mario Monicelli, non hanno nulla a che vedere con gli eroi delle “zingarate”. La risata cede il passo alla tristezza. «È facile scrivere canzoni divertenti, più difficile mostrare il lato più duro della vita» osserva Gabriele. «Ho dato una trasposizione autobiografica al film. Nella canzone gli “amici miei” sono mio padre Nino con i suoi compagni». Un padre scomparso sei anni fa. E questo spiega la profonda malinconia che vela la canzone. La presenza della morte riaffiora in “Go to Amsterdam”, una ballata chitarristica dal sound americano. «È la nostra prima canzone, racconta di un funerale, perché la fine di qualcosa è sempre l’inizio di qualcos’altro, ed è stato questo l’evento scatenante che ci ha spinto a scrivere e dire la nostra sulla vita, le cose, le persone».
Il disco si chiude in stile Ermal Meta-Fabrizio Moro con l’urlo di “Fate silenzio”, che riporta alle radici power pop del gruppo, facendo esplodere la rabbia viscerale contro tutte le persone che pur non avendo qualcosa da dire non smettono di dire la loro, come tutti coloro i quali usano i social come orinatoio. “Senza un lavoro serio e titoli accademici al giorno d’oggi non si compra la felicità” è il monito della band. L’album è il punto di partenza di una strada che per i Caleidø è tracciata non da un televoto, ma dalle variabili della vita: un trasferimento, un concorso, un esame. «Vogliamo fare i musicisti» dichiarano, pur consapevoli delle difficoltà. «Ma non vogliamo dipendere dalla musica. Vogliamo restare liberi dal punto di vista creativo. Preferiamo sottoporci a sacrifici, piuttosto che scendere a compromessi».