La decisione della Banca d’Italia di azzerare il consiglio della Popolare di Bari e di nominare i due commissari per gestire la situazione riapre il tema dei salvataggi bancari. Da un lato l’esigenza di intervenire a tutela dei correntisti e del personale, e dall’altra la politica che sul tema degli interventi ha avuto in questi anni un atteggiamento misto di ipocrisia e ambiguità. Da quando le fragilità del sistema ancario sono emerse, si contano almeno una dozzina di interventi di salvataggio, dalla Cassa Marche, alla Popolare Etruria, alla Popolare Vicentina, alla Veneto Banca, alla Cariferrara, per arrivare alla Cassa di risparmio di Genova e al Monte dei Paschi di Siena.
Lo Stato, secondo quanto si rileva da una ricostruzione dell’Osservatorio dell’Università Cattolica di Milano, è di 10 miliardi negli ultimi 4 anni. L’era dei salvataggi è iniziata in Italia nel novembre 2015 quando vennero messe in risoluzione 4 piccole banche (Carichieti, CariFerrara, Banca Marche e Banca Etruria). Fino ad allora i salvataggi erano stati guidati con rapidità dalla Banca d’Italia e dal Tesoro, accollando le banche in difficoltà ad altri istituti e scaricando così i costi a livello di sistema generale. Ma a partire dal caso di Banche Venete la strada intrapresa è stata quella del “burden sharing”, la procedura disciplinata da una direttiva Ue, che prevede il coinvolgimento anche degli obbligazionisti e non solo degli azionisti. La decisione scatenò furiose polemiche e, nel 2017, un duro attacco da parte del governo guidato da Matteo Renzi alla vigilanza di Bankitalia. Renzi corse ai ripari varando, dopo una discussione con la Ue, un meccanismo di ristoro per i risparmiatori. Il risultato fu che il conto finale di oltre 5 miliardi di euro venne caricato sul Fondo di Risoluzione, pagato dalle altre banche private, mentre le 4 banche vennero cedute a Ubi per un euro. I soldi del Fondo sono serviti a ricapitalizzare le 4 banche, il cui capitale è stato azzerato, a coprire le perdite derivanti dai crediti sofferenti e a creare l’istituto destinato al recupero di tali crediti (le cosiddette bad bank). Non c’è stato quindi alcun contributo in termini di liquidità da parte dello Stato.
Poi nel 2013 è la volta del Monte dei Paschi di Siena finito nella bufera per i bilanci ritoccati per coprire i costi dell’operazione Antonveneta. Arrivano 4 anni di inchieste e aumenti di capitale oltre a lunghe interlocuzioni fra Bruxelles, la banca e le autorità italiane. Infine, nel 2016, dopo non aver passato lo stress test, il fallimento del piano di salvataggio con risorse private e la regia di Jp Morgan, condizionato anche dall’incertezza per la fine del governo Renzi, caduto nel dicembre 2016 dopo l’esito negativo del referendum sulla riforma costituzionale. Il 21 dicembre il nuovo governo Gentiloni è costretto a correre in salvataggio di Monte de Paschi con 5,4 miliardi (di cui 1,5 miliardi di rimborso agli obbligazionisti). Il Tesoro, dopo la ricapitalizzazione eseguita a luglio 2017, è ora l’azionista di maggioranza del Monte con quasi il 70%.
L’operazione più importante, in termini di contributo dello Stato, è stata quella che ha riguardato la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, acquisite a giugno del 2017 dal Gruppo Intesa Sanpaolo dopo la liquidazione coatta amministrativa. A perdere sono stati principalmente i titolari di azioni, mentre depositi e obbligazioni sono stati tutelati, anche se non integralmente per le obbligazioni subordinate. Ancora una volta a essere colpita è stata la proprietà delle banche (cioè gli azionisti, anche se questi includono certamente anche piccoli risparmiatori), mentre i depositanti e gli altri prestatori di fondi sono stati in buona parte tutelati. Intesa San Paolo, che ha acquistato le due Banche Venete alla cifra simbolica di 1 euro, ne ha ereditato principalmente le attività sane, come prestiti concessi ai debitori affidabili. I crediti deteriorati sono stati invece trasferiti a una bad bank, che raccoglie le attività non più esigibili. L’intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi di euro, destinati a soddisfare il fabbisogno di capitale, nonché la ristrutturazione aziendale. A questi vanno aggiunti circa 400 milioni di garanzie, a fronte di un capitale garantito di 12,4 miliardi. Risorse che non è ancora possibile sapere se dovranno essere impiegate o meno.
Un altro caso è quello che riguarda la genovese Carige. Il cda dell’istituto ligure è stato commissariato dalla Bce nel gennaio 2019 dopo che i soci, alla fine del 2018, hanno bocciato un aumento di capitale da 400 milioni, necessario per ripagare un bond subordinato da 320 milioni sottoscritto d’urgenza dallo schema volontario del Fitd, il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, un consorzio di diritto privato sottoposto alla supervisione diretta della Banca d’Italia e che ha il compito di salvaguardare i depositi dei clienti delle banche. Al termine, di una complessa trattativa, il salvataggio di Carige ha previsto un rafforzamento patrimoniale complessivo di 900 milioni di euro: 700 tramite aumento di capitale, con dei warrant gratuiti (1 ogni 4 azioni sottoscritte), che consentiranno in un secondo tempo di comprare le azioni sul mercato a meta’ prezzo. Altri 200 milioni verranno poi raccolti tramite un prestito subordinato. La ricapitalizzazione, per la quale non è previsto alcun intervento dello Stato in termini di liquidità, sarà distribuita per 312,2 milioni allo Schema volontario del Fondo interbancario, che convertirà i bond sottoscritti a novembre 2018, quando già per la prima volta il consorzio delle banche italiane aveva salvato Carige. Lo stesso Fitd interverrà direttamente nell’aumento di capitale per altri 238,8 milioni, garantendo poi l’eventuale inoptato della quota riservata agli attuali azionisti. Ai vecchi soci andrà in opzione solo una quota di 85 milioni di euro della ricapitalizzazione.