Wes Anderson è diventato Wes Anderson quando, il 14 dicembre 2001, uscì “I Tenenbaum”. Prima lo conoscevano bene gli addetti ai lavori, e lo conoscevano bene quelli che erano andati a vedere “Rushmore”, il suo film precedente, perché c’era dentro Bill Murray. Prima ancora Wes Anderson aveva fatto “Bottle Rocket”, che in italiano fu tradotto come “Un colpo da dilettanti” in modo da inserirlo in una categoria riconoscibile di film, anche se proprio riconoscibile non lo era: i protagonisti erano i fratelli Luke e Owen Wilson, che sarebbero diventati storici collaboratori e, soprattutto il secondo, tra i più famosi attori comici al mondo. “Bottle Rocket “fu il primo film per entrambi ed entrambi, entro il 2001, quando uscì “I Tenenbaum”, sarebbero già diventati famosi.
Sia “Bottle Rocket” sia “Rushmore” contenevano già i temi e le caratteristiche che avrebbero reso Anderson uno dei registi più originali e apprezzati degli anni Duemila. A riguardarli oggi, in confronto ai Tenenbaum quei due film sono meno coerenti e più grezzi: bellissimi per gli appassionati e godibili per gli altri, ma se dovete convincere qualcuno del perché Anderson è diventato un regista di culto, meglio scegliere altro. Meglio scegliere i Tenenbaum, appunto, perché il suo primo film davvero riuscito non l’ha più superato (ok, con Moonrise Kingdom ci è andato vicino, ma si è fermato un po’ prima).
La storia a scriverla non rende, come per tutti i film di Anderson. Il film in lingua originale si chiama “The Royal Tenenbaums”, dal nome – Royal Tenenbaum – del padre distante e truffaldino di una famiglia disfunzionale, disastrata ed eccentrica di New York, protagonista del film. Lui è interpretato da Gene Hackman, in uno dei suoi ultimi ruoli (si ritirò tre anni dopo) e anche in uno dei suoi migliori. Sua moglie Etheline – da cui è separato – è interpretata da Anjelica Houston, e i tre figli da Ben Stiller, Luke Wilson e Gwyneth Paltrow. Tutti e tre hanno una caratteristica comune: sono stati dei geni da bambini ma a un certo punto la loro vita è sbandata. Il primo, Chas, è un non meglio specificato genio della matematica, che ha fatto moltissimi soldi, ma ha perso la moglie in un incidente aereo: da allora è iperprotettivo verso i due figli, Ari e Uzi, che veste in modo uguale e gestisce come un’unità militare. Il secondo si chiama Richie ed è stato un fortissimo giocatore di tennis, prima di avere un collasso nervoso e mettersi a girare il mondo su una nave. La terza, Margot, è in realtà una figlia adottiva, ha scritto a 15 anni un’opera teatrale pluripremiata, ha avuto una vita movimentata ed è sposata con un bizzarro neurologo di nome Raleigh St. Clair, interpretato da Bill Murray e ispirato a Oliver Sachs. Ci sono diversi altri personaggi importanti: tra tutti Eli, un vicino di casa dei Tenenbaum cresciuto insieme ai figli, scrittore e tossicodipendente, interpretato da Owen Wilson, e Pagoda (Kumar Pallana), il domestico di famiglia.
Il film si svolge in una città che è New York, anche se i suoi luoghi più famosi non vengono inquadrati, e in un periodo storico non molto ben definito tra gli anni Ottanta e i Novanta, in un momento in cui la famiglia si riunisce perché Royal finge di avere un cancro allo stomaco per riavvicinare tutti gli altri. Vengono fuori tensioni e affetti trascurati da tempo, Richie e Margot si scoprono innamorati, Chas ed Eli decidono di affrontare i loro disturbi mentali e le loro dipendenze, Royal prova a cambiare ma capisce che non può riuscirci. Di per sé, l’idea della famiglia che si rimette insieme per fare i conti con i propri problemi irrisolti non è particolarmente originale: ma fu come Anderson decise di raccontare quella storia che stupì tutti e lo rese immediatamente un gigante di Hollywood, imitato, celebrato, preso in giro, parodiato, odiato come pochi altri.
Un film come “I Tenenbaum” non si era mai visto, perché le cose che Anderson decise di metterci dentro erano esclusivamente sue. Di lui non si può dire che sia stato un regista molto influente, come lo è per esempio di Christopher Nolan, di un anno più giovane. Non ha introdotto idee e stili poi usati nella maggior parte dei film dello stesso genere, né è diventato uno dei registi più richiesti di Hollywood, anche perché ha lavorato sempre e solo su film che pensava e voleva fare autonomamente, senza entrare nei circuiti delle grandi produzioni su commissione. Però è uno di quei registi immediatamente riconoscibili da ogni singola inquadratura e, per l’unicità del suo stile, non ha probabilmente eguali tra i registi sotto i cinquanta (Quentin Tarantino ne ha 56, rimanete pure seduti). O, almeno, non ha eguali tra i registi proiettati nei multisala: e avere uno stile unico e venire proiettati nei multisala è un merito enorme, che supera le due cose prese singolarmente. Sugli elementi di questo stile unico ed eccezionale si sono scritti centinaia di articoli, tesi di laurea e libri. Per dire i più evidenti: la simmetria ossessiva delle inquadrature, colori pastellati e uniformi, utilizzo invasivo della colonna sonora, storie spesso malinconiche, incentrate sui personaggi più che sulla trama, e personaggi eccentrici, mai tragici e mai bidimensionali, zoom e inquadrature dall’alto, attori fissi idolatrati dagli affezionati (Bill Murray, Owen e Luke Wilson, Jason Shwarzman, Willem Dafoe, e più recentemente Adrien Brody, Edward Norton e Tilda Swinton), l’approccio sempre da “fiaba per adulti”. E decine di altri. E nei Tenenbaum c’erano già tutte le cose centrali dell’originalità di Anderson, che elaborò nei film successivi senza mai riuscire a farle funzionare insieme a personaggi memorabili – tutti, memorabili – come quelli.
La scena più famosa del film è contemporaneamente un esempio dell’utilizzo molto furbo di canzoni indie famosissime (“These Days” di Nico, in questo caso), delle simmetrie, dei colori, della malinconia, degli slow-motion, dei personaggi a cui non si riesce a non affezionarsi. Sono due minuti in cui c’è un concentrato di quirkiness, una parola inglese che descrive situazioni, persone e oggetti strani ma fichi, e che ha avuto una recente fortuna anche grazie a Anderson. Alla fine di un’altra scena famosa, accompagnata da “Me and Julio Down By the Schoolyard” di Paul Simon, c’è invece un esempio dei dialoghi assurdi e divertenti tipici dei film di Anderson: Royal racconta ai nipoti di quando ha conosciuto Pagoda, che lo salvò in un mercato di Calcutta dopo che era stato accoltellato. «Chi ti aveva accoltellato?». «Lui! C’era una taglia sulla mia testa e lui era un sicario». Anderson è uno a cui piace citare il cinema del passato, anche se non ne fa una questione identitaria come molti altri registi contemporanei. All’inizio della scena dell’inseguimento tra Chas ed Eli, la telecamera inquadra Ari, Uzi, il cane Buckley e Royal, mentre fissano la macchina che sta per travolgerli. È una soluzione volutamente vintage, come la telecamera sul cofano dell’auto che inquadra Eli alla guida. Dopo torna Anderson, coi dialoghi assurdi, la musica che commenta la scena e gli inseguimenti (gli piacciono molto).
Le inquadrature dall’alto di oggetti disposti ordinatamente sono uno dei pallini di Anderson più riconoscibili e presi in giro.
Nei Tenenbaum ce n’è uno dei più efficaci di tutta la sua filmografia, quello delle braccia ferite di Richie, sopra al lavandino con i suoi capelli e la sua barba tagliati. La scena del tentato suicidio è un’altra delle più famose e soprattutto – di nuovo – per la colonna sonora, “Needle in the Hay” di Elliot Smith, cantautore americano con un pubblico che pressappoco avrebbe coinciso con quello di Anderson, e che sarebbe morto (forse suicida) due anni dopo. Ciascuno dei protagonisti dei Tenenbaum avrebbe retto da solo un film intero, e invece Anderson li mise tutti nello stesso film, riuscendo comunque a mostrare le ragioni per cui era impossibile non volere loro bene. Ricevette una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiature originale, ma vinse Gosford Park di Robert Altman. Anderson divenne comunque famosissimo, fece poi diversi film che piacquero molto ai suoi fan ma che non ebbero lo stesso impatto, fino a Moonrise Kingdom del 2012, che venne candidato allo stesso Oscar e lo perse. Si pensò che forse Anderson non poteva vincere l’Oscar, e che tutto sommato andava bene anche così, ma poi fece Grand Budapest Hotel, che ebbe un grandissimo successo e di Oscar ne vinse quattro. Tra questi non ce n’era in realtà nessuno davvero per Anderson: erano tutti tecnici, alla colonna sonora, alla scenografia, ai costumi e al trucco.