Una pericolosissima escalation nelle relazioni già tesissime tra Stati Uniti e Iran, un passo deciso verso il baratro di un conflitto dalle prospettive forse non bene calcolate: è la considerazione che accompagna i titoli dei giornali di tutto il mondo sull’attacco americano che ha ucciso il generale Qassim Soleimani. C’è su New York Times, al Jazeera, Le Monde. Soleimani era il capo delle Forze Quds, l’«architetto» delle più grandi operazioni iraniane all’estero (in Siria, in Yemen, in Iraq, per esempio), e soprattutto uno degli uomini di fiducia della Guida suprema Ali Khamenei, la massima autorità in Iran. Per gli Stati Uniti era il nemico numero uno in Iran, responsabile di molte delle crisi del Medio Oriente e di centinaia di morti americani. Ma nessuno degli ultimi due presidenti che avevano preceduto Donald Trump, George W. Bush e Barack Obama, aveva dato l’ordine di assassinare Soleimani. Non l’aveva fatto neppure Israele, storico nemico dell’Iran e con una lunga tradizione di omicidi mirati. Uccidere Soleimani, si pensava, avrebbe potuto provocare l’inizio una nuova guerra.
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Le preoccupazioni che avevano frenato tutti negli ultimi vent’anni non hanno fermato Trump, che ha dato l’ordine diretto di attaccare e uccidere Soleimani. Le proteste che in queste settimane hanno scandito il fronte dell’Iraq, culminate con l’assalto all’ambasciata americana nella Green Zone di Baghdad, erano il segnale di un’escalation di tensione in tutta l’area che avrebbe portato a un’esplosione di violenza tra Iran e Stati Uniti. Mark Esper, segretario alla Difesa Usa, aveva annunciato il dispiegamento di centinaia di uomini per proteggere i funzionari americani in Medio Oriente, e lo stesso capo del Pentagono aveva parlato di altre “misure preventive” per colpire gli iraniani qualora l’intelligence avesse avuto sentore di nuove azioni contro le strategie americane. L’azione è avvenuta: ma non è solo un attacco preventivo. L’uccisione di Soleimani alza il livello dello scontro tra Iran e Stati Uniti. E ora da Teheran gridano vendetta.
Le conseguenze dell’attacco statunitense sono difficili da anticipare per diverse ragioni, tra cui l’imprevedibilità della politica estera di Trump e la chiusura del regime iraniano, sempre diviso tra la fazione ultraconservatrice, la più potente, e quella moderata. L’uccisione di Soleimani ha fatto pensare subito al rischio di una nuova guerra, ma le ritorsioni iraniane potrebbero avvenire sotto altre forme, già testate negli ultimi anni in diverse occasioni: l’Iran potrebbe usare attacchi informatici e terroristici, oppure i gruppi suoi alleati in diversi paesi del Medio Oriente per attaccare direttamente i militari statunitensi e quelli dei paesi amici. Attacchi per quanto avvenuto potrebbero arrivare , dunque, in Iraq e Libano e non solo perché Soleimani è stato ucciso a Baghdad, ma anche perché insieme a lui sono stati uccisi alcuni comandanti delle milizie irachene vicine all’Iran, e dal 2018 inquadrate all’interno dell’esercito iracheno.
E poi c’è la completa imprevedibilità di Trump in politica estera. La decisione di attaccare Soleimani è stata presa da Trump dopo che la scorsa settimana era stato ucciso in Iraq un militare privato statunitense durante un attacco di una milizia sciita filo-iraniana. Difficile decifrare la strategia del presidente che in passato aveva rinunciato a rispondere all’Iran per episodi molto più gravi della morte di un contractor, per esempio gli attacchi alle petroliere straniere nel Golfo Persico, l’abbattimento di un drone americano e i bombardamenti a due importanti stabilimenti petroliferi sauditi. Soleimani poteva essere eliminato anche prima, ma l’America aveva perfino collaborato con lui in funzione anti-Isis e anti-Al Qaeda. Perché adesso? Forse colpire l’Iran serve alla sua campagna elettorale.