La storia occidentale degli ultimi secoli ha un serbatoio tutto suo che è divenuto ormai patrimonio universale: è l’inesauribile antologia sonora della propria storia, quel colossale retaggio musicale che resta fra i monumenti più eloquenti della civiltà del secondo millennio. Chiunque attinga a quella riserva si trova dinanzi un universo quasi senza confini. Spesso il Cinema vi ha attinto, facendosi risucchiare dall’ovvio, dal sublime della sua versione più popular. Ma altre volte, in certe scelte, in certi abbinamenti, è esplosa qualche genialità. Così musiche vecchie sono risuonate nuovissime, imprevedibili.
2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (“Introduzione – L’alba” da Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, The Cleveland Orchestra diretta da Vladimir Ashkenazy). Pochi sono i rendez-vous fra musica e immagine cinematografica così riusciti come quello fra l’inizio di 2001: Odissea nello spazio e l’introduzione di Also sprach Zarathustra Op. 30 di Richard Strauss (1864-1949). Guardare a orecchie chiuse e non potete non sentire quella musica; sentite quella musica e non potete non riandare a quelle immagini. Lo Zarathustra di Strauss composto nel 1896 era un omaggio a Friedrich Nietzsche, a un filosofare intriso di iperromanticismo che approdava a un inappagamento elevato a sistema. L’infinito, l’universo, le origini remote e insondabili sono un orizzonte comune a Strauss-Nietzsche e a Kubrick-Clarke: Strauss lo racconta con due note, ma sono come scolpite nella montagna: pilastri universali, una musica che si dichiara sapere millenario. Kubrick raccoglie la lezione e la trasforma in jingle geniale, diretto, elementare, formula per dire in musica le domande che non hanno risposta, per schiuderci l’anima di quegli scimmioni di un milione di anni fa.
Excalibur di John Boorman (“O fortuna velut luna” da Carmina Burana di Carl Orff, Radio Symphonie Orchester Berlin und Chor Knabenchor des Staats-und Domchors Berlin diretta da Riccardo Cahilly). Medioevo virtuale, totalmente reinventato (come quasi sempre accade, del resto). È questo il lato comune, il legame forte che ha portato al connubio fra quella reinvenzione a suo modo geniale del Medioevo quale i Carmina Burana di Carl Orff (1895-1982) e le sfolgoranti cromature heavy metal di Excalibur, film che ha attinto a piene mani a quel serbatoio storico dell’immaginario musicale di cui si diceva. Carl Orff ha scritto una sola composizione divenuta veramente famosa: Carmina Burana, 1937, Germania. Risultato: apoteosi di medioevo tedesco popolato di giovani entusiasti e vigorosi. Dei Carmina quel coro in particolare, O Fortuna, ha fatto più volte il giro del mondo, al cinema e con altri mezzi. Su cosa si fonda la sua efficacia, il suo neogoticismo straripante? Intanto su quell’armatura percussiva inesorabile, eco di un mondo rude, crudele, che dopo Stravinskij ha goduto di molto credito musicale. E poi quell’affastellarsi di voci ossessive, massicce, spigolose, timbrica collettiva, spersonalizzata, quando l’individuo naufragava nella gleba. C’è della maestria: il modo con cui sono sovrapposti gli intervalli, la polifonia da scalpellino, a blocchi taglienti disegna un falso musical suggestivo, emulo di antichi organa, metafora di cattedrali pinnacolute, materia grezza per questa coralità urlata, ruvida, iterativa, la voce arcaica che urla in noi: quanto basta per soccombere ammaliati e dominati.
Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (La cavalcata delle Vachirie da Die Walküre di Richard Wagner, Wiener Philarmoniker diretta da Sir Georg Solti). Ciò che per Richard Wagner (1813-1883) poteva essere solo frutto di una immaginazione febbrile e sconfinata, qualche decennio più tardi è diventato realtà tecnologica, sufficientemente impoetica, ma a sua volta disponibile a ulteriori fantasie, altrettanto irrefrenabili. Invece di zoccoli alati sono pale mosse da turbine, invece di divinità femminee, corazzate e incessabili, sono crani rapati con Ray-ban sul naso e cartuccere al posto dei vestiti. Ma spazio comune per la fantasia – sana o malata che sia – c’è: il cavalcare guerresco, l’annuncio che una schiera sovraumana solca i cieli, l’incedere implacabile, l’assenza della pietà, un orologio turgido, che non ha nome o tutt’al più uno slogan. Gli arnesi con cui Wagner, nella walkiria, la prima delle tre giornate, disegna la squadriglia a cavallo delle figlie di Wotan, sono un ritmo incalzante che s’impenna di continuo; un pullulare di richiami di corni, di ottoni militareschi, giganteschi olifanti in cui si soffia a perdifiato. Tutto corre, tutto galoppa, anche chi ascolta. L’istantanea, folgorante, è diventata uno degli stereotipi più citati del grande circo musicale, per evocare qualcosa di più grande di noi, che una volta in corsa non si può fermare. Con gli elicotteri, questi nuovi e mostruosi insetti del destino, nessuno forse prima si era ammantato dell’aura wagneriana: ma per dare corpo alla vanagloria mortifera di un soldato pazzo niente di meglio.
Arancia meccanica di Stanley Kubrick (The Queen’s Funeral March procession di Henry Purcell, Baroque Brass of London). Il 1971, l’anno nel quale il film uscì, verrà ricordato come uno degli apici della fortuna beethoveniana nel XX secolo. Anche in questo caso l’abbinamento Alex-Ludwig funzionò splendidamente, fondandosi verosimilmente sulla deflagrante carica contestatrice che la musica di Beethoven ha sempre racchiuso, unita però a una fortissima componente filantropica, di amore per l’umanità. Non poteva darsi comunque contrasto più stridente dell’accostamento fra un monumento elevato ai più nobili sentimenti umani, come la Nona Sinfonia, e quella raccapricciante e disumana raffigurazione di devianza. Ma Kubrick, nel suo aspro agrumeto a orologeria, non si limitò a imprigionare musica del Ludovico Van entro questo suo bislacco contrappasso. Innanzitutto la modificò, sottoponendola a quello shockante maquillage elettronico messo in atto mediante i sintetizzatori di Walter Carlos (caso più unico che raro di compositore divenuto compositrice, col nome di Wendy dopo un chiacchieratissimo soggiorno a Casablanca). Fra gli altri frammenti memorabili che circolano lungo il film (tutti sottoposti alla plastica di Carlos), oltre al galoppante Rossini del Guillaume Tell, troviamo una ristretta cernita di autori inglese: Edward Elgar e, soprattutto, questa spoglia, severa, indimenticabile fanfara di ottoni, firmata da Henry Purcell (1659-1695), massimo fra i compositori britannici di ogni tempo. Tratta dalle musiche composte per la cerimonia funebre in occasione della morte della Regina Maria II Struart (Londra 1694) questa marcia è intessuta con pochissime, meste note: un modo topico, austero, fascinoso, con cui la nobiltà era solita dipingere il proprio dolore. Sullo sfondo torbido delle avventure di Alex, essa risuona come un’eco bizzarra, consolazione improbabile.
Amadeus di Miloš Forman (“Introitus” da Requiem in re min. K626 di Wolfgang Amadeus Mozart, Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor Wiener Philarmoniker diretta da Sir Georg Solti). La storia idilliaca del rapporto tra Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) e il cinema è un capitolo a sé. Un capitolo, come vediamo poco oltre, divenuto persino troppo zuccheroso in questi ultimi anni. Amadeus, in quanto film, è un capitolo nel capitolo, un imprevisto, un’irruzione salutare, anche se seguita da una normalizzazione ancora più accentuata. L’irruzione di Amadeus aveva il suo lato positivo (e, nonostante le svariate ripulse che provocò, storicamente più veritiero) nel presentare in società un giovane genio assolutamente impresentabile: l’artefice di tanto nettare uditivo, la fonte di ogni ambrosia per orecchie divine, non poteva essere un ragazzotto volgare, insolente, perdigiorno, dedito al turpiloquio. Invece, ahiloro, lo era, e non perché l’avesse scoperto Milos Forman o prima di lui Peter Schaffer, ma perché lo testimoniano le carte di una storiografia mozartiana che nel tentativo di venire a capo della personalità del compositore ha profuso energie infinite. Vicenda che, alla fine, si rivela essere una lezione sul come i geni – ovunque e sempre – non abitino di norma sugli altari, ma vivano per strada, disturbando alquanto la nostra quieta normalità. Naturalmente Amadeus non poté non tradursi in una scorpacciata di musica mozartiana. Fra le pagine più suggestive, incaricate di proiettare verso l’infinito quella personalità che altrimenti riuscirebbe persin troppo corporea e terrena, fu scelta il Requiem, capolavoro che nel film si accompagna per altro agli episodi più reinventati e meno attendibili. Musica, dal canto suo, senza paragoni, fuori dal tempo, di cui è difficile essere degni.
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La mia Africa di Sydney Pollack (“Adagio” dal Concerto per clarinetto in la magg. K622 di Wolfgang Amadeus Mozart, Anthony Pay, The Academy of Ancient Music diretta da Christopher Hogwood). Per intravedere una qualche ipotizzabile associazione tra il clarinetto e l’Africa, occorre aspettare il jazz e, per quanto riguarda il grande serbatoio eurocolto, bisogna aspettare che il jazz entri come ingrediente della grande ricetta e che, di rimbalzo, il clarinetto si qualifichi come ebony, legno nero, durissimo, ma a volte incredibilmente tenero, come qui. Di fatto tra l’Africa scolpita in ebano, il mondo del clarinetto mozartiano e l’Africa di questo film baciato dal successo, non c’è assolutamente nulla in comune. Tuttavia, la musica di Mozart e, a suo modo, La mia Africa hanno una qualità che li accomuna: l’essere entrambi luoghi dell’anima. Il luogo ideale, questo Eden che l’Adagia mozartiano adombra o rimpiange, non ha nulla a che fare con nessuna geografia; ha a che fare invece con la mente, con quei luoghi sempre nuovi e sempre loro che, di solito, si possono soltanto sognare o rammentare e non ci sono mai le parole. C’è però la musica, questa volta. Il Concerto per clarinetto di Mozart è una delle sue ultime pagine, anzi è l’ultimo dei suoi grandi capolavori portati a termine due mesi prima di morire, nel 1791. L’Adagio ne è il cuore, scritto con una penna intrisa di semplicità luminosa, di canto intimo e prezioso. Musicalmente questa breve pagina è un miracolo di chimica armonica, una combinazione di pochi perfetti tasselli disposti in modo da dare carne a una melodia diabolica, una melodia che, qualunque idea lirica le accostiate, si accende, sconvolge, trasporta: nella quale è racchiusa tutto, dall’Africa al Mar della Tranquillità.
Camera con vista di James Ivory (“O mio babbino caro” da Gianni Schicchi di Giacomo Puccini; Mirella Freni, Orchestra del Teatro La Fenice diretta da Roberto Abbado). Così canta Lauretta nel Gianni Schicchi di Giacomo Puccini (1858-1924), un canto esile e floreale, la preghiera di una fanciulla innamorata che supplica il padre di acconsentire al suo sogno d’amore. “O mio babbino caro” ha sempre avuto un carattere di sigla, quasi fosse il ritratto, il ricordo, l’ovale di un’epoca giunta al tramonto. Melodia amata, cantata e ricantata infinite volte dagli amanti dell’opera e di Puccini, nel film di James Ivory circola quasi come paesaggio sonoro di una Firenze ritratta così com’era nei primi anni del secolo; una Firenze indimenticabile, vista e sentita attraverso occhi e sensibilità anglosassoni, terra d’arte e di storia, scrigno di natura, ma anche luogo di tentazioni, di trasgressioni inquietanti: la terra di Danta Alighieri, dove inferno e paradiso si incontrano. Gianni Schicchi è infatti personaggio dantesco, finito all’inferno in quanto incorreggibile e abilissimo truffatore. Lauretta, sua figlia, è invece una figura da melodramma, tutta presa dal suo impossibile amore per Rinuccio. Ebbene, quella gentile schiettezza con cui l’Italia, Dante, Puccini e il librettista Gioacchino Forzano cantano attraverso la voce di Lauretta, è l’incarnazione di un mistero, di una diversità culturale e antropologiche. È il fascino segreto che questa terra esercita su chi vi mette piede venendo da lontano, da una terra dove i sentimenti, le passioni, hanno voci e colori diversi. In fondo, con la sua naturalezza, dolce e spudorata, quel canto dice ciò che la giovane Lucy, protagonista del film di Ivory, non sa né dire né pensare.
Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno (“Adagio” dal Concerto per oboe in re min. di Alessandro Marcello; The Academy of Ancient Music diretta da Christopher Hogwood). Per anni, quando la musica barocca non apparteneva ancora come oggi al novero dei consumi musicali correnti, il Concerto per oboe in re minore (o, meglio, l’Adagio che ne costituisce il secondo movimento) di Alessandro Marcello (1684-1750) conobbe in virtù del successo di Anonimo veneziano, una popolarità straordinaria. A tenergli testa fu – guarda caso – un altro Adagio simil-veneziano, il celebre Adagio in sol minore di Tomaso Albinoni; in realtà un falso, una contraffazione di pregio (per altro sempre dichiarata come tale) di una pagina settecentesca che mai era esistita in quella veste e dovuta invece all’inventiva del musicologo Remo Giazotto. Insieme, queste due composizioni spopoleranno, in anni in cui il mélo falso settecentesco costituì un’autentica moda. Inattendibile, per molteplici ragioni, era la versione del concerto di Marcello proposta nel film in un arrangiamento di Stelvio Cipriani che trasformava la toccante cantabilità della pagine in cliché melodrammatico e iperromantico. Un pessimo servizio riservato a questo concerto che rappresenta comunque un magnifico esempio della letteratura concertistica veneziana del primo Settecento. Attribuito sovente al celebre fratello Benedetto, che in effetti ne realizzò una trascrizione, questa pagina per oboe e archi dovette esercitare un fascino davvero intrigante se – oltre al pubblico delle sale cinematografiche, incline ad accontentarsi di una Venezia e di un Settecento da cartolina – era stato in grado, a suo tempo, di interessare persino Johann Sebastian Bach che ne aveva realizzata una versione per clavicembalo. Genuina o fasulla che sia, l’Arcadia adulterata di Anonimo veneziano ha contribuito comunque alla nascita di un vero e proprio filone, legato a un revival tanto più discusso quanto più apprezzato dal pubblico.
Elvira Madigan di Bo Widerberg (“Andante” dal Concerto per pianoforte n. 21 in do magg. K467 di Wolfgang Amadeus Mozart; Andra Schiff, Camerata Academica des Mozarteums Salzburg diretta da Sandor Vegh). Sebbene la fortuna di questa pellicola sia alquanto appannata da quando, nel 1967, spinse alle lacrime mezza Europa con la sua storia – si dice vera – di due infelici amanti suicidi, un film come Elvira Madigan resta una delle tappe chiave della marcia postuma di Wolfgang Amadeus Mozart in direzione della vetta suprema, verso il suo riconoscimento nell’immaginario popolare come compositore di caratura divina. Il film di Bo Widerberg portò alla ribalta come commento sonoro toccante, sublime, inarrivabile, un Andante mozartiano: uno dei tanti tempi lenti che si annidano nei suoi innumerevoli concerti, sonate, sinfonie o altro ancora, a cui è affidata la quintessenza stessa della cantabilità classica, così come venne concepita nella musica europea dei secoli scorsi. Si tratta dell’Andante dal Concerto per pianoforte in do maggiore K467, uno dei tanti esempi di questo genere concepiti da Mozart nei primi anni della sua avventura viennese, sotto la spinta di un’esigenza impellente: imporsi come compositore di successo. La ragione per cui questo piccolo capolavoro ha surclassato in fama il film, che lo aveva proposto all’attenzione del grande pubblico, è indipendente dal suo valore all’interno della produzione mozartiana. Più verosimilmente essa risiede nella fragrante, nuda semplicità con cui questa melodia lievemente cromatica si offre all’ascolto, avvolta solo da un leggero sfondo degli archi con sordina; una melodia che incarna una delle eterne aspirazioni del compositore tradizionale, inteso come artista dei suoni che si affida al responso del pubblico: l’ideale di una semplicità perfetta e spoglia, ma insieme indimenticabile e sensuale. L’ascesa mozartiana di questi decenni, dentro e fuori dal cinema, è proceduta di pari passo alla consapevolezza che su questo terreno nessuno ha mai potuto competere con lui.
Morte a Venezia di Luchino Visconti (“Adagietto” da Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, Chiacago Symphony Orchestra diretta da Sir Georg Solti). Morte a Venezia e l’Adagietto della Quinta sinfonia di Gustav Mahler (1860-1911) costituirono da subito un binomio inscindibile, troppo vero, penetrante, intenso, morboso. In questo caso la scelta del commento musicale fu come guidata dalla stessa sceneggiatura che, rifacendosi all’omonimo racconto di Thomas Mann, modificava però il profilo del protagonista, Gustav von Aschenbach, presentandocelo, anziché come uno scrittore, come un compositore nel quale è impossibile non riconoscere lo stesso Mahler (oltretutto ambientando i fatti nel 1911, anno della morte del compositore austriaco). Così, a rendere quasi tangibile il tormento e poi la malattia di Gustav, ecco le volute sensuali e ineguagliabili di uno dei capolavori di Mahler, autore ancora relativamente poco noto in Italia e del quale, giusto da pochi anni, era decollato quel processo di riscoperta che fa di lui, oggi, uno degli autori più eseguiti e amati dell’intero repertorio sinfonico. Difficile valutare quanto Visconti abbia, dal canto suo, contribuito alla rinascenza mahleriana nel nostro paese, ma certamente si è trattato di un contributo non irrilevante. In effetti non solo nella produzione sinfonica di Mahler, ma in tutta la grande stagione del decadentismo musicale a cavalcioni tra i due secoli, sono poche le pagine che come questo incantevole Adagietto riescono a raffigurare quell’ineguagliabile miscela di malessere, ipersensibilità, malinconia, ebbrezza e depressione che costituisce la materia prima di quest’epoca cruciale della cultura europea. Interamente intessuto di sonorità di archi e di arpe, ragnatela sonora delicatissima e impalpabile, irradiata di una luce dorata e preziosa, questo Adagietto, in realtà, è riuscito forse a capovolgere i ruoli: ha trasformato il film in raffinatissimo, aderente commento a se stesso.
Barry Lyndon di Stanley Kubrick (“Andante con moto” da Trio per pianoforte, violino e violoncello in mi bemolle magg. Op. 100 D929 di Franz Shubert, Beaux Arts Trio). Nella sua estasi filologica di ricostruzione del passato, un’opera come Barry Lyndon non poteva non accumulare pagine memorabili della musica del XVIII secolo. Per intenderci, quanto a pertinenza e sottigliezza, l’immaginario sonoro di Kubrick è agli antipodi del Settecento di Anonimo veneziano. Ad accompagnare l’interminabile vicenda dell’avventuriero irlandese si susseguono musiche di Johann Sebastian Bach, Friedrich Handel, Giovanni Paisiello, Wolfgang Amadeus Mozart: tutti autori del Settecento, ai quali si aggiunge però un altro nome, quello di Franz Schubert, autore che settecentesco non è se non per uno scampolo cronologico, essendo nato nel 1797. Di fatto, nella serie logica dei compositori elencati, è il classico intruso enigmistico. Eppure è proprio sua la musica che forse più incide e caratterizza l’atmosfera psicologica del film, indipendentemente da ogni questione di anagrafe o di filologia. L’Andante con moto del Trio Op. 100 fu composto negli ultimi mesi della sua brevissima vita, conclusasi nel 1828. La qualità miracolosa di questa pagina ha poco a che fare col realismo storico. Qui non è una questione di pertinenza o di anacronismo: fosse stata scritta cent’anni prima o cent’anni dopo, la natura di questa musica l’avrebbe comunque resa capace di cantare l’amara canzone di Barry Lyndon. Per questa partitura vale in certa misura quanto detto a proposito del Mozart del Concerto K467: nuda, dolente semplicità, un sol minore reso da pochi, scarni accorti, un canto ridotto all’essenziale, quasi mormorato: costeggiamo ancora una voltala perfezione di un motto che non potrebbe essere più autentico, profondo; qualcosa di altrimenti indicibile che, una volta detto, diventa incancellabile.
Manhattan di Woody Allen (Rapsodia in blu di George Gershwin; Robert Crowley, Orchestre Symphonique de Montréal diretta da Charles Dutoit). Con ogni probabilità il vero inno degli USA non è tanto The Star – Spangled Banner, quanto uno dei brani infinitamente celebri scaturiti da questo paese allorché ha cominciato a inventare quella sua nuova musica destinata poi al mondo intero. Rhapsody in blue è senza dubbio uno di questi inni possibili. Volenti o nolenti, la rivoluzionaria storia della musica di questo secolo è stata scritta attorno a questo nuovo baricentro d’oltreoceano. Manhattan coi suoi grattacieli e Rhapsody in Blue sono, per così dire, due icone: Woody Allen, accoppiandole, non lavora tanto di fantasia, segue piuttosto un percorso obbligato. Sebbene il clarinetto e l’orchestra che George Gershwin (1898-1937) schiera in questa partitura non abbiano nulla di nuovo o di bizzarro, questa creazione, frutto di mille incroci culturali, non abita da nessuna parte, è musica senza fissa dimora. Nulla a che fare col jazz, con Tin Pan Alley, con la tradizione sinfonica, con la tradizione popolare. Eppure tutto questo è entrato in Rhapsody in Blue e, a sua volta, Rhapsody in Blue è entrata in tutto ciò, piantando radici così profonde e ramificate che nessuno ormai può estirpare. D questa musica non si può prescindere, così come è impossibile rimuovere dalla nostra coscienza quel bosco di cemento, vetro e acciaio chiamato Manhattan. In ogni caso questa storia è tutta ancora da scrivere: non per negligenza, ma per il suo contenuto in divenire. Un esempio? Proprio quel clarinetto. Fino a qualche anno fa era sentito come emblema del jazz. Pochi, a suo tempo, avevano capito quanta memoria della jewish culture e della sua musica fosse racchiusa in quel clarinetto. Se oggi di Rhapsody in Blue si dice che è intrisa di musica Klezmer, ovvero la musica della tradizione yiddish, non è solo per la moda della World Music. È perché, davvero, tutta questa storia è magnificamente e maledettamente complicata.